mercoledì 17 ottobre 2012

CENT’ ANNI DI SOLITUDINE: UN SOGNO A OCCHI APERTI



 “Aureliano, il primo essere umano nato a Macondo, era silenzioso e riservato. Aveva pianto nel ventre di sua madre ed era nato con gli occhi aperti. Mentre gli tagliavano l’ombelico girava la testa da una parte e dall’altra, osservando le cose della stanza, ed esaminava il viso della gente con curiosità priva di stupore. Un giorno, all’età di tre anni, entrò in cucina proprio mentre la madre Ursula toglieva dal focolare e collocava sul tavolo una pentola di brodo bollente. Il bambino, esitante sulla soglia, disse: < ora cadrà>. La pentola era ben posata nel mezzo del tavolo ma, non appena il bambino diede l’avviso, iniziò un movimento irrevocabile verso il bordo, come spinta da un dinamismo interiore, e si frantumò per terra. Divenuto colonnello, Aureliano promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse i quali furono sterminati uno dopo l’altro in una sola notte. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatre imboscate e ad un plotone d’esecuzione. Sopravvisse ad una dose di stricnina nel caffé che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo.  Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi venti anni di guerra civile. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale.” [1]

“Appena si affacciava all’adolescenza Remedios la bella era già la creatura più bella che si fosse mai vista a Macondo. Era di una bellezza inquietante tanto che Ursula non la faceva uscire di casa se non per andare a messa ma costringendola comunque a coprirsi la faccia con uno scialle nero. Gli uomini frequentavano la chiesa con l’unico proposito di vedere anche solo per un attimo il viso di Remedios della cui avvenenza leggendaria si parlava con un fervore rimescolante in tutta la palude. Passò molto tempo prima che ci riuscissero e meglio sarebbe stato per loro che l’occasione non fosse mai giunta perché la maggior parte di loro non  poté mai più ricuperare la tranquillità del sonno. In realtà, Remedios la bella non era un essere di questo mondo. Pur molto avanti nella pubertà, non sapeva badare a se stessa e, anche quando cominciò a farlo, bisognava comunque sorvegliarla perché non disegnasse pupazzetti sui muri con un bastoncino intinto nella sua stessa cacca. Compì i venti anni senza saper né leggere, né scrivere, né servirsi delle posate a tavola, e girava nuda per la casa perché la sua natura si opponeva a qualsiasi tipo di convenzionalismo. Gli uomini non riuscirono mai a capire che non era una criminale provocazione la sfacciataggine con la quale si scopriva le cosce per sopportare meglio il caldo, e il gusto col quale si succhiava le dita dopo aver mangiato con le mani. Remedios la bella emanava un alito di conturbamento e una raffica di angoscia: gli uomini affermavano di non aver mai sofferto un’ansietà simile a quella che produceva l’odore naturale di Remedios. Dopo la morte di quattro uomini che erano in qualche modo entrati a contatto con Remedios si cominciò a pensare che ella avesse poteri di morte. Benché certi uomini dalla parola facile si compiacessero di affermare che valeva la pena di sacrificare la vita per una notte d’amore con una donna così conturbante; la verità era che nessuno mosse un dito per cimentarvisi. Forse, non solo per farla capitolare ma altresì per scongiurarne i pericoli, sarebbe bastato un sentimento tanto primitivo e semplice, come l’amore, ma quella fu l’unica cosa che non venne mai in mente a nessuno. Remedios la bella rimase così a vagare per il deserto della solitudine e nei suoi profondi e prolungati silenzi senza ricordi, fino ad un pomeriggio di marzo in cui Fernanda volle piegare in giardino le sue lenzuola di fiandra e chiese aiuto alle donne di casa, tra cui Remedios che,mentre piegava le lenzuola, improvvisamente cominciò a sollevarsi verso il cielo e a salutare con la mano tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei  e si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.”[2]

I passi sopra riportati introducono due tra i più importanti personaggi del romanzo Cent’anni di solitudine, pubblicato per la prima volta nel 1967. Grazie a tale opera , Gabriel Garcia Marquez vinse nel 1982 il premio Nobel per la letteratura. 
Lo stile dello scrittore colombiano, capace di esprimere tutto il suo portentoso genio creativo, invade i sentimenti e gli occhi del lettore, trasportandolo in un universo nel quale è libero di scavare nell’anima dei personaggi, conoscendone ogni pregio e ogni difetto, e vivendo con ognuno di essi irripetibili emozioni. Nel romanzo Marquez riesce nell’impresa di creare un mondo in cui realtà e fantasia si mescolano in un impasto narrativo ai limiti dell’onirico, e nell’intento di raccontare  tutto il “suo mondo[3].  Il lettore, infatti, non fa di Macondo, luogo immaginario del romanzo, una mera illusione, ma una realtà vivificata da personaggi fantastici nei quali ci si può identificare proiettando il proprio destino nel loro.
Cent’anni di solitudine riflette soprattutto il mondo dell’infanzia dell’autore, trascorsa con i nonni  in una casa molto triste e molto grande, con una sorella che mangiava terra [4], una nonna che indovinava il futuro e numerosi parenti  dai nomi tutti uguali [5] che non distinguevano bene la felicità dalla demenza. Lo stesso villaggio in cui l’autore colombiano trascorse la sua infanzia è in realtà la trasposizione reale di Macondo, e la devastazione che esso subisce a causa del progresso, è la stessa che mette a soqquadro la tranquilla e primitiva vita dei personaggi del romanzo.
Tutto è possibile a Macondo: le stuoie possono volare, i morti possono resuscitare, ci possono essere piogge di fiori, può comparire la peste del sonno; Rebeca può mangiare terra e calcinacci e girovagare con un zainetto sulle spalle contenente le ossa dei genitori morti. Possono nascere figli con la coda di maiale da genitori non ottemperanti al divieto dell’incesto; un vecchio delirante, divorato dalla demenza senile, può aspettare la propria morte legato a un castagno,  macerato dal sole e dalla pioggia; ci possono essere spettri che camminano per la casa e spostano gli oggetti; ci può essere Amaranta che inizia a tessere il proprio sudario per ordine della Morte in persona, e muore non appena ha terminato l’opera. Tutto ciò fa parte del cosiddetto Realismo Magico, poetica situata a metà strada tra l’elemento magico e onirico e la rappresentazione realista. Tale obiettivo viene raggiunto da Marquez mediante una descrizione precisa e meticolosa della realtà che non tralascia alcun dettaglio; nello stesso tempo lo scrittore colombiano riesce a ottenere un effetto di straniamento attraverso l’uso di elementi magici descritti altrettanto realisticamente: in tal modo si resta inizialmente stupiti, incantati e increduli di fronte alla quasi assurdità del fenomeno magico descritto ma poi, a mano a mano che Marquez incrementa i particolari realistici, si comincia a credere realmente a questi fenomeni che, da assurdi e impossibili, diventano reali e incredibilmente belli agli occhi del lettore, perché carichi di sfondo magico. Il Realismo Magico investe anche una delle figure chiave del romanzo, Remedios la bella, il personaggio più poetico e surreale tra quelli del romanzo, femmina di una bellezza inquietante, capace di far impazzire ogni uomo, la cui natura si oppone a qualsiasi tipo di convenzionalismo. Esempio memorabile di realismo magico è la sua miracolosa ascesa al cielo, come  uno spirito dalle ali di carta .Magici non sono solo i personaggi ma anche il tempo che non scorre mai ma si ripete in modo sempre eguale protraendo fino all’inverosimile la vita dei personaggi [6]. In questa intricata narrazione, sempre a metà strada tra l’onirico e il concreto, non si riesce mai a intendere bene se i luoghi descritti siano davvero reali o sospesi in una dimensione fantastica. Così  il personalissimo tono di G. G. Marquez,che con geniale creatività riesce a fondere simbolismo, mitologia e realtà, diventa esso stesso leggenda. Quello dello scrittore colombiano è uno stile tumultuoso, permeato dei toni della follia, con una struttura narrativa ardimentosa ed un linguaggio potente e suggestivo che dà vita a un’opera superlativa, illogica e, proprio per questo, inconfondibilmente unica.
Cent’anni di solitudine è, come evidenziato dal titolo, anche il romanzo della solitudine, sentimento dominante che investe i personaggi e li accompagna nelle loro avventure: è questo il caso, per esempio, di Aureliano Buendia, espressione perfetta della solitudine dell’uomo. Egli, infatti, scartando la tentazione della violenza, in una continua ricerca della giustizia, troverà scampo solo nella solitudine assurda e grottesca,  finendo i propri giorni relegato in un laboratorio a fabbricare pesciolini d’oro. Per solitudine si intende soprattutto mancanza d’amore, sentimento con il quale i personaggi del romanzo, e in particolare le donne, non sembrano avere molta dimestichezza a causa della loro ostinazione a respingere i vari pretendenti, come nel caso di Amaranta che sottopone Pietro Crespi a infiniti tormenti fino a farlo morire e frustra la vita ed i sentimenti del colonnello Gerinaldo Marquez, costringendolo ad un lento ma inesorabile martirio.
Pur avendo soprattutto una veste fiabesca, il romanzo può però essere letto come un rimando alla realtà storico-sociale dei paesi latino-americani sconvolti, assoggettati e annientati dall’imperialismo dei paesi moderni e tecnologicamente avanzati come gli Stati Uniti, dilaniati dalle guerre civili, oppressi dalle dittature e condannati al sottosviluppo. Macondo che rappresenta l’America latina, vive all’inizio dei suoi cento anni in uno stato d’ innocenza da paradiso terrestre in cui tutti gli uomini sono pacifici al punto di non morire se non di morte naturale, in cui gli abitanti si dividono la terra e introducono migliorie “senza dare fastidio ad alcun governo e senza che qualcuno dia fastidio a loro”; il paese si presenta privo di violenza, dedito alla solidarietà ed al bene comune. Con il tempo però le cose cominciano a cambiare perché l’intrusione graduale di altre genti, estranee al villaggio (commercianti, militari, colonizzatori), spezza l’armonia e l’equilibrio originario, insinuando corruzione e violenza. Macondo evolve verso forme di vita civile sofisticata e tecnologica (inaugurazione della ferrovia, installazione del telefono, arrivo della compagnia bananiera, etc), ma si avvia ad una fatale involuzione morale e alla rovina totale testimoniata dall’imputridire e incancrenire della natura. La storia di Macondo riflette, quindi, gli eventi storici che contraddistinguono la Colombia e i paesi latino-americani in genere: nelle trentadue guerre fatte dal colonnello Aureliano Buendia, rappresentante della rivoluzione contro il governo conservatore e nell’ arrivo a Macondo della compagnia bananiera è evidente una feroce polemica di G. G. Marquez nei confronti del proprio paese e dell’ingerenza politica, culturale ed economica esercitata dagli Stati Uniti che sono visti come la causa dell’instabilità politica dell’America latina. Le situazioni di Cent’anni di solitudine sono fantastiche ma riflettono la realtà; per non soffrire si cancella la memoria ed ecco, perciò, comparire a Macondo la peste del sonno, malattia che non  fa dormire e che non provoca nemmeno stanchezza, con l’unico effetto collaterale della perdita della memoria. Così, per non soffrire, si dimentica il massacro dei lavoratori della compagnia bananiera, incitati allo sciopero, si dimentica il trasporto nei vagoni del treno  dei loro cadaveri, sistemati nell’ordine e nel senso con cui si trasportano i caschi di banane. Nessuno crederà, dopo quello scempio, alla versione dello sterminio e dell’incubo del treno carico di morti diretti verso il mare, come se niente fosse avvenuto.
Molti sono coloro che hanno giustamente celebrato il capolavoro di Marquez: tra questi, lo scrittore italiano Alessandro Baricco, autore di Oceano mare ,il quale  ha definito Cent’anni di solitudine come un romanzo popolato da personaggi passionali, all’interno dei quali non ci sono tante storie ma una sola: la storia di tutte le donne che sono in una donna e di tutti i padri che sono in un padre[7].
Non mancano tuttavia i detrattori del capolavoro, come Pier Paolo Pasolini il quale affermò che era un’idiozia definire il romanzo di Marquez un capolavoro in quanto si trattava dell’opera di uno scenografo o di un costumista burlone che aveva fatto cadere nella sua trappola numerosi sciocchi[8].
A mio parere non si può fare a meno di leggere un capolavoro  come Cent’anni di solitudine, libro unico e straordinario, che ha il rarissimo dono di far venire fuori da un po’ di pagine di carta  un sogno a occhi aperti.



 Il Funambolo- Ratti della Sabina
Son maestro di follia,
vivo la mia vita sulla fune
che separa la prigione della mente
dalla fantasia.
Il mio futuro è nel presente
e ogni giorno allegramente
io cammino sul confine immaginario
dell'orizzonte mentre voi,
signori spettatori, mi guardate dalla strada,
cuori appesi ad un sospiro
per paura che io cada
ma il mio equilibrio è in cielo
come i sogni dei poeti,
mai potrei viver come voi
che avete sempre la certezza della terra sotto i piedi.
Son maestro di pazzia,
e vola sulla corda la mia mente
a rincorrere i pensieri
a inseguire l'utopia
di catturare almeno un oggi
prima che diventi ieri
e provare a far danzare il tempo.
Signori spettatori lo spettacolo è finito,
vi saluto con l' inchino,
sempre in bilico sull' orlo del destino
e un sorriso avrò per tutti voi,
che vediate nel funambolo un buffone
o che vediate in lui un artista
e ringrazio chi ha disegnato questa vita mia perchè
mi ha fatto battere nel petto il cuore di un equilibrista.

BIBLIOGRAFIA

1) GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine, Arnoldo Mondatori editore, 1982.
2) Intevista rilasciata da Garcia Marquez a Plinio Mendoza e apparsa su Repubblica il 16.01.2002.
3) ALESSANDRO  BARICCO, lezione  universitaria su Cent’anni di solitudine.
4) PIER PAOLO PASOLINI.  Descrizione di descrizioni, Einaudi Torino 1979.


                                                                              MARCO ADORNETTO




[1]GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine.
[2] GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine.
 [3] Secondo Stephane Mallarmè “ tutto il mondo esiste per essere raccontato in un libro”.
[4]   La sorella di Marquez presenta numerose analogie con Rebeca che mangiava terra umida dal patio e calcinacci che staccava dai muri con le unghie.
[5]  I protagonisti del romanzo, soprattutto quelli maschili, mostrano sempre gli stessi identici nomi: Aureliano, Arcadio, Josè Arcadio.
[6] Ursula è una presenza quasi costante nel romanzo tanto che morirà all’età di circa centoventi anni.
[7] ALESSANDRO BARICCO,  lezione universitaria su Cent’anni di solitudine.
[8]  PIER PAOLO PASOLINI, descrizione di descrizioni, Einaudi, Torino 1979.

1 commento:

  1. Il libro più sopravvalutato della storia della letteratura. Pasolini AVEVA COMPLETAMENTE RAGIONE....

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