“Aureliano, il primo essere umano nato a Macondo, era silenzioso e riservato.
Aveva pianto nel ventre di sua madre ed era nato con gli occhi aperti. Mentre
gli tagliavano l’ombelico girava la testa da una parte e dall’altra, osservando
le cose della stanza, ed esaminava il viso della gente con curiosità priva di
stupore. Un giorno, all’età di tre anni, entrò in cucina proprio mentre la
madre Ursula toglieva dal focolare e collocava sul tavolo una pentola di brodo
bollente. Il bambino, esitante sulla soglia, disse: < ora cadrà>. La
pentola era ben posata nel mezzo del tavolo ma, non appena il bambino diede
l’avviso, iniziò un movimento irrevocabile verso il bordo, come spinta da un
dinamismo interiore, e si frantumò per terra. Divenuto colonnello, Aureliano
promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli
maschi da diciassette donne diverse i quali furono sterminati uno dopo l’altro
in una sola notte. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatre imboscate e ad
un plotone d’esecuzione. Sopravvisse ad una dose di stricnina nel caffé che
sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la
guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo
laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi
uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la
capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi venti anni di guerra civile.
Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza
ledere alcun centro vitale.” [1]
“Appena si affacciava
all’adolescenza Remedios la bella era già la creatura più bella che si fosse
mai vista a Macondo. Era di una bellezza inquietante tanto che Ursula non la
faceva uscire di casa se non per andare a messa ma costringendola comunque a
coprirsi la faccia con uno scialle nero. Gli uomini frequentavano la chiesa con
l’unico proposito di vedere anche solo per un attimo il viso di Remedios della
cui avvenenza leggendaria si parlava con un fervore rimescolante in tutta la
palude. Passò molto tempo prima che ci riuscissero e meglio sarebbe stato per
loro che l’occasione non fosse mai giunta perché la maggior parte di loro non poté mai più ricuperare la tranquillità del
sonno. In realtà, Remedios la bella non era un essere di questo mondo. Pur
molto avanti nella pubertà, non sapeva badare a se stessa e, anche quando
cominciò a farlo, bisognava comunque sorvegliarla perché non disegnasse
pupazzetti sui muri con un bastoncino intinto nella sua stessa cacca. Compì i
venti anni senza saper né leggere, né scrivere, né servirsi delle posate a
tavola, e girava nuda per la casa perché la sua natura si opponeva a qualsiasi
tipo di convenzionalismo. Gli uomini non riuscirono mai a capire che non era
una criminale provocazione la sfacciataggine con la quale si scopriva le cosce
per sopportare meglio il caldo, e il gusto col quale si succhiava le dita dopo
aver mangiato con le mani. Remedios la bella emanava un alito di conturbamento
e una raffica di angoscia: gli uomini affermavano di non aver mai sofferto
un’ansietà simile a quella che produceva l’odore naturale di Remedios. Dopo la
morte di quattro uomini che erano in qualche modo entrati a contatto con
Remedios si cominciò a pensare che ella avesse poteri di morte. Benché certi
uomini dalla parola facile si compiacessero di affermare che valeva la pena di
sacrificare la vita per una notte d’amore con una donna così conturbante; la
verità era che nessuno mosse un dito per cimentarvisi. Forse, non solo per
farla capitolare ma altresì per scongiurarne i pericoli, sarebbe bastato un sentimento
tanto primitivo e semplice, come l’amore, ma quella fu l’unica cosa che non
venne mai in mente a nessuno. Remedios la bella rimase così a vagare per il
deserto della solitudine e nei suoi profondi e prolungati silenzi senza
ricordi, fino ad un pomeriggio di marzo in cui Fernanda volle piegare in
giardino le sue lenzuola di fiandra e chiese aiuto alle donne di casa, tra cui
Remedios che,mentre piegava le lenzuola, improvvisamente cominciò a sollevarsi
verso il cielo e a salutare con la mano tra l’abbagliante palpitare delle
lenzuola che salivano con lei e si
perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i
più alti uccelli della memoria.”[2]
I
passi sopra riportati introducono due tra i più importanti personaggi del
romanzo Cent’anni di solitudine, pubblicato per la prima volta nel 1967.
Grazie a tale opera , Gabriel Garcia Marquez vinse nel 1982 il premio Nobel per
la letteratura.
Lo
stile dello scrittore colombiano, capace di esprimere tutto il suo portentoso
genio creativo, invade i sentimenti e gli occhi del lettore, trasportandolo in
un universo nel quale è libero di scavare nell’anima dei personaggi, conoscendone
ogni pregio e ogni difetto, e vivendo con ognuno di essi irripetibili emozioni.
Nel romanzo Marquez riesce nell’impresa di creare un mondo in cui realtà e
fantasia si mescolano in un impasto narrativo ai limiti dell’onirico, e
nell’intento di raccontare tutto il
“suo mondo” [3].
Il lettore, infatti, non fa di Macondo, luogo
immaginario del romanzo, una mera illusione, ma una realtà vivificata da
personaggi fantastici nei quali ci si può identificare proiettando il proprio
destino nel loro.
Cent’anni
di solitudine
riflette soprattutto il mondo dell’infanzia dell’autore, trascorsa con i
nonni in una casa molto triste e molto
grande, con una sorella che mangiava terra [4], una nonna che indovinava
il futuro e numerosi parenti dai nomi
tutti uguali [5]
che non distinguevano bene la felicità dalla demenza. Lo stesso villaggio in
cui l’autore colombiano trascorse la sua infanzia è in realtà la trasposizione
reale di Macondo, e la devastazione che esso subisce a causa del progresso, è
la stessa che mette a soqquadro la tranquilla e primitiva vita dei personaggi
del romanzo.
Tutto è possibile a
Macondo: le stuoie possono volare, i morti possono resuscitare, ci possono
essere piogge di fiori, può comparire la peste del sonno; Rebeca può
mangiare terra e calcinacci e girovagare con un zainetto sulle spalle
contenente le ossa dei genitori morti. Possono nascere figli con la coda di
maiale da genitori non ottemperanti al divieto dell’incesto; un vecchio
delirante, divorato dalla demenza senile, può aspettare la propria morte legato
a un castagno, macerato dal sole e dalla
pioggia; ci possono essere spettri che camminano per la casa e spostano gli
oggetti; ci può essere Amaranta che inizia a tessere il proprio sudario per
ordine della Morte in persona, e muore non appena ha terminato l’opera. Tutto ciò fa parte del cosiddetto Realismo
Magico, poetica situata a metà strada tra l’elemento magico e onirico e la
rappresentazione realista. Tale obiettivo viene raggiunto da Marquez mediante
una descrizione precisa e meticolosa della realtà che non tralascia alcun
dettaglio; nello stesso tempo lo scrittore colombiano riesce a ottenere un
effetto di straniamento attraverso l’uso di elementi magici descritti
altrettanto realisticamente: in tal modo si resta inizialmente stupiti, incantati
e increduli di fronte alla quasi assurdità del fenomeno magico descritto ma
poi, a mano a mano che Marquez incrementa i particolari realistici, si comincia
a credere realmente a questi fenomeni che, da assurdi e impossibili, diventano
reali e incredibilmente belli agli occhi del lettore, perché carichi di sfondo
magico. Il Realismo Magico investe anche una delle figure chiave del
romanzo, Remedios la bella, il personaggio più poetico e surreale tra quelli
del romanzo, femmina di una bellezza inquietante, capace di far impazzire ogni
uomo, la cui natura si oppone a qualsiasi tipo di convenzionalismo. Esempio
memorabile di realismo magico è la sua miracolosa ascesa al cielo, come uno spirito dalle ali di carta .Magici non
sono solo i personaggi ma anche il tempo che non scorre mai ma si ripete in
modo sempre eguale protraendo fino all’inverosimile la vita dei personaggi [6]. In questa intricata
narrazione, sempre a metà strada tra l’onirico e il concreto, non si riesce mai
a intendere bene se i luoghi descritti siano davvero reali o sospesi in una dimensione
fantastica. Così il personalissimo tono
di G. G. Marquez,che con geniale creatività riesce a fondere simbolismo, mitologia
e realtà, diventa esso stesso leggenda. Quello dello scrittore colombiano è uno
stile tumultuoso, permeato dei toni della follia, con una struttura narrativa
ardimentosa ed un linguaggio potente e suggestivo che dà vita a un’opera
superlativa, illogica e, proprio per questo, inconfondibilmente unica.
Cent’anni
di solitudine è, come
evidenziato dal titolo, anche il romanzo della solitudine, sentimento
dominante che investe i personaggi e li accompagna nelle loro avventure: è
questo il caso, per esempio, di Aureliano Buendia, espressione perfetta della
solitudine dell’uomo. Egli, infatti, scartando la tentazione della violenza, in
una continua ricerca della giustizia, troverà scampo solo nella solitudine
assurda e grottesca, finendo i propri
giorni relegato in un laboratorio a fabbricare pesciolini d’oro. Per solitudine
si intende soprattutto mancanza d’amore, sentimento con il quale i personaggi
del romanzo, e in particolare le donne, non sembrano avere molta dimestichezza a
causa della loro ostinazione a respingere i vari pretendenti, come nel caso di
Amaranta che sottopone Pietro Crespi a infiniti tormenti fino a farlo morire e
frustra la vita ed i sentimenti del colonnello Gerinaldo Marquez, costringendolo
ad un lento ma inesorabile martirio.
Pur
avendo soprattutto una veste fiabesca, il romanzo può però essere letto come un
rimando alla realtà storico-sociale dei paesi latino-americani sconvolti, assoggettati
e annientati dall’imperialismo dei paesi moderni e tecnologicamente avanzati
come gli Stati Uniti, dilaniati dalle guerre civili, oppressi dalle dittature e
condannati al sottosviluppo. Macondo che rappresenta l’America latina, vive
all’inizio dei suoi cento anni in uno stato d’ innocenza da paradiso terrestre
in cui tutti gli uomini sono pacifici al punto di non morire se non di morte
naturale, in cui gli abitanti si dividono la terra e introducono migliorie “senza dare fastidio ad alcun governo e senza
che qualcuno dia fastidio a loro”; il paese si presenta privo di violenza, dedito
alla solidarietà ed al bene comune. Con il tempo però le cose cominciano a
cambiare perché l’intrusione graduale di altre genti, estranee al villaggio (commercianti,
militari, colonizzatori), spezza l’armonia e l’equilibrio originario, insinuando
corruzione e violenza. Macondo evolve verso forme di vita civile sofisticata e
tecnologica (inaugurazione della ferrovia, installazione del telefono, arrivo della
compagnia bananiera, etc), ma si avvia ad una fatale involuzione morale e alla
rovina totale testimoniata dall’imputridire e incancrenire della natura. La
storia di Macondo riflette, quindi, gli eventi storici che contraddistinguono
la Colombia e i paesi latino-americani in genere: nelle trentadue guerre fatte
dal colonnello Aureliano Buendia, rappresentante della rivoluzione contro il
governo conservatore e nell’ arrivo a Macondo della compagnia bananiera è
evidente una feroce polemica di G. G. Marquez nei confronti del proprio paese e
dell’ingerenza politica, culturale ed economica esercitata dagli Stati Uniti
che sono visti come la causa dell’instabilità politica dell’America latina. Le
situazioni di Cent’anni di solitudine sono fantastiche ma riflettono la
realtà; per non soffrire si cancella la memoria ed ecco, perciò, comparire a
Macondo la peste del sonno, malattia che non fa dormire e che non provoca nemmeno
stanchezza, con l’unico effetto collaterale della perdita della memoria. Così,
per non soffrire, si dimentica il massacro dei lavoratori della compagnia
bananiera, incitati allo sciopero, si dimentica il trasporto nei vagoni del
treno dei loro cadaveri, sistemati
nell’ordine e nel senso con cui si trasportano i caschi di banane. Nessuno
crederà, dopo quello scempio, alla versione dello sterminio e dell’incubo del
treno carico di morti diretti verso il mare, come se niente fosse avvenuto.
Molti
sono coloro che hanno giustamente celebrato il capolavoro di Marquez: tra
questi, lo scrittore italiano Alessandro Baricco, autore di Oceano mare ,il
quale ha definito Cent’anni di
solitudine come un romanzo popolato da personaggi passionali, all’interno
dei quali non ci sono tante storie ma una sola: la storia di tutte le
donne che sono in una donna e di tutti i padri che sono in un padre[7].
Non
mancano tuttavia i detrattori del capolavoro, come Pier Paolo Pasolini il quale
affermò che era un’idiozia definire il romanzo di Marquez un capolavoro in
quanto si trattava dell’opera di uno scenografo o di un costumista burlone che
aveva fatto cadere nella sua trappola numerosi sciocchi[8].
A mio
parere non si può fare a meno di leggere un capolavoro come Cent’anni
di solitudine, libro unico e straordinario, che ha il rarissimo dono di far
venire fuori da un po’ di pagine di carta un sogno a occhi aperti.
Il Funambolo- Ratti della Sabina
Son maestro di follia,
vivo la mia vita sulla funeche separa la prigione della mente
dalla fantasia.
Il mio futuro è nel presente
e ogni giorno allegramente
io cammino sul confine immaginario
dell'orizzonte mentre voi,
signori spettatori, mi guardate dalla strada,
cuori appesi ad un sospiro
per paura che io cada
ma il mio equilibrio è in cielo
come i sogni dei poeti,
mai potrei viver come voi
che avete sempre la certezza della terra sotto i piedi.
Son maestro di pazzia,
e vola sulla corda la mia mente
a rincorrere i pensieri
a inseguire l'utopia
di catturare almeno un oggi
prima che diventi ieri
e provare a far danzare il tempo.
Signori spettatori lo spettacolo è finito,
vi saluto con l' inchino,
sempre in bilico sull' orlo del destino
e un sorriso avrò per tutti voi,
che vediate nel funambolo un buffone
o che vediate in lui un artista
e ringrazio chi ha disegnato questa vita mia perchè
mi ha fatto battere nel petto il cuore di un equilibrista.
BIBLIOGRAFIA
1) GABRIEL
GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine,
Arnoldo Mondatori editore, 1982.
2)
Intevista rilasciata da Garcia Marquez a Plinio Mendoza e apparsa su Repubblica
il 16.01.2002.
3)
ALESSANDRO BARICCO, lezione universitaria su Cent’anni di solitudine.
4) PIER PAOLO
PASOLINI. Descrizione di descrizioni,
Einaudi Torino 1979.
MARCO ADORNETTO
[1]GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine.
[2]
GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine.
[4] La sorella di Marquez presenta numerose
analogie con Rebeca che mangiava terra umida dal patio e calcinacci che staccava
dai muri con le unghie.
[5]
I
protagonisti del romanzo, soprattutto quelli maschili, mostrano sempre gli
stessi identici nomi: Aureliano, Arcadio, Josè Arcadio.
[6]
Ursula è una presenza quasi costante nel romanzo
tanto che morirà all’età di circa centoventi anni.
[7]
ALESSANDRO BARICCO, lezione universitaria su Cent’anni di
solitudine.
[8]
PIER
PAOLO PASOLINI, descrizione di descrizioni, Einaudi, Torino 1979.
Il libro più sopravvalutato della storia della letteratura. Pasolini AVEVA COMPLETAMENTE RAGIONE....
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