venerdì 26 ottobre 2012

Il poeta gobbo




"Il nostro maestro di scuola pelatone ci impartiva lezioni scolastiche volendo farci leggere tante poesie che a noi non ci interessano. Il pelatone aveva quella mania, pretendeva che noi studiamo a memoria poesie che non si capiva un’acca cosa dicevano, cioè cose inverosimili dette con parole anche più inverosimili. Al pelatone gli piacevano tanto queste cose che andava in solluchero a leggerle forte in classe, facendo gesti delle braccia come se volesse acchiappare una mosca. E ci spiegava che erano cose scritte da grandi poeti riconosciuti come celebrità della nazione. Secondo noi questi poeti dovevano essere mezzi scemi a parlare in quel modo che non si capisce niente, e fa ridere moltissimo a sentirli. Dunque a studiarle a memoria queste poesie ci scappava da ridere, e anche quando gliele recitiamo al maestro ci scappava da ridere a ogni frase, con rabbia del pelatone perché non portiamo rispetto. C’era uno di questi poeti che secondo le spiegazioni del maestro era gobbo o zoppo non so, e tanto infelice perché la vita gli sembrava amara. Questo qui aveva un grande amore per una signorina morta, e allora non si dava pace chiedendosi: cos’è la vita? E stava sempre in casa a studiare e scrivere poesie. Un giorno si è messo alla finestra, ha visto della gente allegra che ballava per strada e si è detto: oh come vorrei essere allegro anch’io. Allora ha avuto questo sentimento nell’animo, e ci ha scritto sopra una poesia così famosa che gli hanno fatto un monumento. In questo modo la vita gli è sembrata meno amara. Un compagno di scuola ripetente ha voluto dire al maestro che secondo lui quella poesia era tutta sbagliata. Perché prima di tutto non si capisce cosa stava a fare sempre a casa questo poeta, e poi scritta da uno che non parla neanche in italiano. Il maestro ha fatto un salto sulla sedia a sentire così. E per convincere il compagno ripetente che aveva torto, gli ha dato una grossa punizione con brutti voti. Il compagno non si è convinto. Il maestro minacciava di farlo scacciare dalla scuola se non si convince che quella è una grande poesia inimitabile. Però tutta la nostra scolaresca è insorta a dire: è una cretinata! E alcuni dicevano:abbasso il gobbo! E altri dicevano: a quello là gli puzzava il fiato! Il maestro non sapeva più dove mettere gli occhi e ci sgridava stringendo i pugni. Ha voluto chiamare il preside per farci punire tutti."

Tratto da La banda dei sospiri di Gianni Celati




giovedì 25 ottobre 2012

Inchiostro Alcolico: La banda dei sospiri di Gianni Celati


                                                        L’AUTORE
Gianni Celati, nato a Sondrio nel 1937, è uno dei maggiori narratori italiani viventi. Si tratta di uno scrittore vagabondo dallo stile inconfondibile che non ha mai smesso di scrivere e spostarsi. I suoi scritti sono caratterizzati da un’evidente spontaneità, immediatezza e comicità. Secondo Celati narrare significa disperdersi, far divagare la propria mente, allontanarsi dagli schematismi e dalle convenzioni, come quando si guardano le nuvole in cielo cercando di indovinarne la forma mutevole.  In tal modo la narrazione trasporta  il lettore in un altro mondo, sottraendolo al peso della realtà. Il neologismo da lui coniato, “fantasticazione”, corrisponde al termine inglese revery, con cui si definisce l’atto del fantasticare. Questa parola rimanda all’idea di una totale distensione e rilassamento del corpo nell’atto della scrittura, che si compie in uno stato di dormiveglia, come se si scrivesse sotto l’impulso di alcuni sogni. Tra le sue opere, oltre a La banda dei sospiri (1976), si possono ricordare: Comiche (1971), Le avventure di Guizzardi (1972), Lunario del Paradiso (1978), Narratori delle pianure (1985), Quattro novelle sulle apparenze (1987), Verso la foce (1988), Avventure in Africa (1998), Cinema naturale (2001) e Fata Morgana (2005)


                                            LA BANDA DEI SOSPIRI
Il romanzo è la storia di un allegro, puzzolente e tragicomico ragazzino di nome Garibaldi, e della sua sgangherata famiglia che include: un padre sbraitone e bestemmiatore, una madre sarta che fa compassione, un disgraziato fratello, inventore di storie strampalate e aspirante romanziere, e vari zii, nonni e cugini, ognuno con i suoi tic. Il piccolo Garibaldi, come ogni ragazzo della sua età, frequenta la scuola, descritta come un luogo strambo in cui a insegnare c’è un maestro pelato con la fissa delle poesie a memoria, e a tentare di imparare dei bizzarri compagni, che più che pensare a studiare sono soliti masturbarsi sotto i banchi mentre il loro insegnante svolge le sue lunghissime e noiosissime lezioni su Leopardi. In mezzo a questo divertente e giocoso sfondo, Garibaldi, con i suoi occhi di bambino, indaga sulle attività dei grandi come la politica, la religione e il sesso traendone delle spassose conclusioni. La banda dei sospiri è un libro comico perfetto che rallegra il lettore portandolo in un mondo infantile e colorato.


UNA BOTTIGLIA D'INCHIOSTRO  RIDARELLO

“Il mio disgraziato fratello ha sempre avuto tante pretese nella vita, e da piccolo non mi lasciava mai in pace a volermi raccontare tutte le sue storie e sogni da ragazzo. Io non sapevo neanche di cosa parlasse, ma per calmarlo facevo quella funzione di ascoltare i suoi discorsi e applaudirlo, in quanto ero il fratello minore.”
“Io piccolino dormivo in un letto grande in mezzo a queste due sorelle, la bruna di qua e la bionda di là. Loro mi mettevano una mano per di sotto e mi venivano dappertutto con le dita a solleticarmi, che quindi io facevo dei salti. Perché una sorella mi stuzzicava il manico, e l’altra mi stuzzicava il sedere, e anch’io dunque volevo stuzzicarle loro tra le gambe per una forma di scherzo, strappandogli magari qualche pelo per divertirci.”

“Nel quadro c’era dipinta una donna con due grosse tette. Io prendevo una lente d’ingrandimento e montavo sopra una sedia per guardarmela meglio. Questa donna era sdraiata, con una mano si grattava il mento, e l’altra mano l’aveva sulla topa, per tenerci sopra un velo. Io sulla mia sedia spiavo tra le sue dita, e speravo molto di vedere cosa c’è sotto il velo. Ma questo neanche con la lente d’ingrandimento si riusciva a vedere. Allora ho preso un temperino, e andavo a scrostare dove c’è il velo, per vedere cosa c’è sotto. Ma sotto il velo c’era la tela e non la topa. Ci sono restato un po’ male. Poi ho tappato il buco con pane masticato.”

“Nella mia scuola c’era uno scalone con due statue in basso di donne con l’elmo in testa e le sottane corte. Noi passando da lì facevamo sempre il gesto di mettere una mano sotto le sottane di quelle donne, e di godere molto con spasimi di gioia in faccia. Poi certe volte negli intervalli scolastici, non visti scappavamo giù per le scale e montavamo sopra le statue per di dietro facendo le mosse dei cani in calore. Certuni hanno anche estratto il loro manico per metterglielo nel buco sotto la sottana a una di queste statue, e fare le mosse dei cani in calore. Però il buco essendo di pietra gli ha graffiato tutto il manico, che dopo hanno dovuto fare gli impacchi. I compagni hanno  cominciato a dire questa storia, che cioè quelle statue a metterglielo dentro si godeva moltissimo, ma addentavano.”

“Come era composta la nostra scuola? Tutti scolari maschi! Le scolare femmine erano in un’altra scuola vicina, dove noi delle volte andavamo a fare rappresaglie contro le bambine che vorrebbero avere da noi corteggiamenti. Alle bambine noi gli sputavamo in testa perché non ci piacciono, siccome non hanno le tette!”

“Era così. Io le mettevo un braccio intorno alla vita e stringevo tutto contento, perché non l’avevo mai fatto questo, di mettere un braccio intorno a una donna. Allora la scruto negli occhi e lei si lascia scrutare, sempre un po’ ridendo. Allora ridevo anch’io dalla soddisfazione, e adesso siamo molto abbracciati. E qui stavo a guardarle da vicino quel rossetto luccicante che porta sulle labbra, e mi chiedevo: sporcherà questo rossetto? Lei ha voluto darmi la prova che non sporca mollandomi un bacio. Un bacio a me sulla bocca, che mi ha dato all’improvviso. Ohè mi ha fatto girare la testa. Tant’è che dopo le mangiavo anche un po’ di capelli masticandoli molto entusiasta. Perché era proprio una roba da sogno questo bacio che non si dimentica, con noi due così stretti abbracciati per la strada quella sera.”

“Si pensava a quei tempi che se uno andava da una ragazza e la baciava, tutto era fatto e lei doveva essere sua fidanzata per sempre. Noi però non eravamo mai riusciti a dare a nessuna un bacio così, prima di tutto perché le bambine della nostra età non ci piacevano, e le mandavamo via con parole e sputi se venivano a fare le smorfiose. Secondo perché alle ragazze alte e signorine non ci arrivavamo ancora come altezza a baciarle sulla bocca, e dunque come fare?”

“Con tutti i guai della vita ci manca anche questa invenzione degli innamoramenti d’amore per far perdere tempo alla gente.”

“Si credeva a quei tempi che dovesse abbastanza in fretta scoppiare una rivoluzione, con ammazzamento di tutti i maiali superiori e trionfo del popolo e della libertà. Invece poi a quanto pare la rivoluzione non scoppia mai, e i maiali superiori ricchi e furbi sempre continuano a vivere alle spalle dei poveri miserabili che tirano la carretta.”

“Essendo un vagabondo che va libero per le strade senza pensieri in testa e con la bocca chiusa, non sapevo dove andare e andavo per divertimento al cimitero a leggere tutti i nomi sulle tombe e a guardare i ritratti dei defunti.”

“Con mio fratello delle volte alla sera progettavamo fughe per girare il mondo con un sacchetto in spalla. Si doveva prendere il treno, poi a piedi attraversare certe foreste che mio fratello conosceva benissimo perché se le era sognate di notte. Poi ci imbarcavamo su una nave diretta chissà dove. Però le fughe a chiacchiere sono una cosa e quelle vere un’altra. A dir la verità il mio disgraziato fratello preferiva stare a casa a leggere tanti libri e menarselo. E il massimo che abbiamo fatto come fuga è stato di andare alla stazione, dove lui si è letto tutti gli orari dei treni e poi siamo tornati a casa in silenzio.”






Colapesce- Bogotà

Le storie di questa casa vuota
Bastano a riempire una reggia
Quando eravamo dei nani impazziti Ricordi?
Poi arrivò quel cane nero
Non si dormiva la notte
Cicale e formiche facevano festa nel cortile

L’odore di pianta annaffiata
Di cuoio e di carne montana
La mia bicicletta
I tuoi soldatini immersi nel fango
Ed una mosca che pareva sempre la stessa
Ogni anno era li insieme a quel geco
La cena e un pigiama
E la sera finiva un po’ prima

Io la notte ancora sto sveglio
A pensare al tempo che ho perso
…E ne accumulo altro…

Le sfide raccolte a vent’anni
Nel sonno la scelta è nel buio
La tecnologia ammortizza
Il rimpianto e l’attesa
Partisti tamburo ed ombrello
Per anni sulla tuscolana
Adesso dispersi cerchiamo la pace
Nelle ombre degli altri
Fratello nuotiamo d’inverno
Il freddo rafforza le ossa
I tuoi soldatini nel fango
Sorvegliano ancora il quartiere

Io la notte ancora sto sveglio
A pensare al tempo che ho perso
…E ne accumulo altro…




giovedì 18 ottobre 2012

Inchiostro Alcolico: Il Serpente di Luigi Malerba



L’AUTORE
Luigi Malerba, nato nel 1927 a Berceto, in provincia di Parma, è uno dei più grandi narratori italiani del Novecento. Maestro di realtà deformate, lo scrittore è produttore di una letteratura in cui si ride di un riso che trasmette al lettore intriganti riflessioni e interrogativi. Tra le sue molte opere, oltre a Il serpente, le più belle e rappresentative sono la raccolta di racconti  La scoperta dell’alfabeto (1963), Salto mortale (1968), Il protagonista (1973), Il pataffio (1978), Il pianeta azzurro (1986), Fuoco greco (1990), Le pietre volanti (1992), Le maschere (1994), Itaca per sempre (1997) e Fantasmi romani (2006). Dopo la sua morte, avvenuta nel 2008, è nato nel 2010 in suo onore il Premio Luigi Malerba, dedicato a scrittori esordienti e a opere inedite di narrativa e sceneggiatura. 

IL SERPENTE
Il protagonista del libro, pubblicato nel 1966, è un delirante e nevrotico proprietario di un polveroso negozio di francobolli, in cui la gente entra solo di rado e per errore. Il serpente è il soliloquio farneticante e tragicomico di un matto che mente, inventandosi un’esistenza onirica-visionaria fatta di relazioni sociali e storie paradossali e assurde che in realtà non ha mai vissuto. Sfila così  all’interno delle meravigliose pagine malerbiane un piccolo popolo di personaggi inesistenti, descritti con metodica follia dal protagonista che guarda il mondo con occhi deformanti e stralunati: la fastidiosa e ripugnante moglie, la bellissima  amante Miriam, il maestro di canto Furio Stella, l’odiato amico collezionista di marmi Baldasseroni, il radiologo-collezionista di mali maligni Occhiodoro, il vecchio cane ghignante Full. 


Un Impareggiabile Inchiostro Frizzante E Spumoso Di Lambrusco Del Parmense

“Io parlo dei gelati a un ragazzo che sta nella mia strada, un ragazzo molto povero con le ginocchia piene di croste, gli parlo anche della giostra, il ragazzo ascolta i miei racconti e riracconta tutto a altri ragazzi ancora più poveri e pieni di croste. È incredibile come ci sia sempre un ragazzo più povero e pieno di croste del ragazzo più povero e pieno di croste che si conosca. E la scala continua a scendere, non si sa nemmeno dove finisce. Per il resto la mia felicità, attraverso il bambino pieno di croste, si propaga a catena e io sono un anello di questa catena e sono felice di esserlo.”

“Farsi intendere senza parole, con il silenzio, attraverso la magia delle cose, è un’arte. Certe cose sembrano inventate apposta, stanno lì e parlano, basta farle parlare. Si può far parlare un castello, una strada, un muro, una pianta. Anche un sasso si può far parlare.”

“L’uomo fa la guerra allo scarafaggio con ogni genere di veleni, fa anche propaganda sui muri contro questo insetto. L’uomo ha il dente avvelenato contro lo scarafaggio. Lo scarafaggio ha parecchie cose che l’uomo non ha: le elitre, le antenne, le ali. Oltre agli ocelli, lo scarafaggio ha occhi composti molto sviluppati che gli permettono di vedere al buio. Non teme il caldo, il freddo, l’umidità. In genere lo scarafaggio ha tre paia di zampe ma in qualche caso ne ha anche quattro, può camminare, saltare, volare, anche se non è un gran volatore. Può sia rodere che masticare  allo stesso tempo. In qualche caso lo scarafaggio ha colori bellissimi, simili a quelli dell’arcobaleno. Nonostante tutto questo la superiorità dell’uomo sullo scarafaggio è indiscutibile.”

“La terrazza dell’aeroporto è sempre piena di gente, secondo me questa gente aspetta che un aeroplano caschi a un bel momento o esploda per aria, nessuno confesserebbe una cosa simile ma è proprio così.”

“I piranha sono pesci che spolpano un bue ogni cinque minuti.”

“Mariti cognati fratelli nonni nipoti zii suoceri eccetera, tutte queste parentele incominciano sempre con un uomo e una donna che vanno a letto insieme. Certe volte ti meravigli di cose che sono proprio naturali. Come la morte. Passano gli anni, a un certo punto ti inchiodano dentro una cassa e ti portano via, tu sei lì inchiodato e non puoi fare niente mentre gli altri parlano e camminano.”

“Io ho sempre sognato di notte da quando mi ricordo. Anche mia madre sognava. Quando si alzava dal letto le facevano male le gambe e le ginocchia per le corse che aveva fatto in sogno. A tavola raccontava a mio padre le lunghe storie della notte. Nei suoi sogni c’era quasi sempre un uomo a cavallo che entrava in scena a un certo punto. Mio padre odiava questo Cavaliere perché sospettava che fra lui e mia madre ci fosse qualcosa. Così mia madre quando raccontava i suoi sogni cominciò a lasciarlo fuori. Allora rimanevano le praterie, le piste polverose, i sentieri nel bosco, il fiume con il suo grande letto sassoso, e i banditi che la inseguivano (a piedi o a cavallo? Domandava mio padre), rimaneva lo scenario pronto per l’entrata dell’uomo a cavallo che doveva salvare mia madre, ma l’uomo a cavallo non entrava. Qualche volta mio padre, che non era stupido, metteva giù la forchetta e usciva di casa.”

“Io stavo lì a guardare la pioggia, imbambolato. Se non ci fossi io qui a guardare, pioverebbe lo stesso? Me lo domandavo. Ma chi ti credi di essere? Mi dicevo subito dopo. Intanto stavo lì a guardare, imbambolato, la pioggia che scendeva, finché smise di scendere.”

“Il cane della vecchia del terzo piano si chiamava Full. Tre-quattro volte al giorno Full veniva davanti alla vetrina del mio negozio, metteva il naso contro il vetro, alzava il labbro superiore fino a scoprire tutta la gengiva e mostrava i denti. Non so che intenzioni avesse. Mi guardava e rideva arricciando il labbro superiore e il naso. Questa non è un’espressione naturale per i cani, e infatti si capiva che doveva fare un certo sforzo per tenere sollevato il labbro. Sebbene fosse un cane vecchio e malandato i suoi denti erano bianchissimi,aguzzi e ben saldi nelle gengive. Il suo ghigno era disgustoso perché è inconcepibile un cane che ride. Era umiliante per me essere preso di mira da un cane.”

“Vorrei stare al buio, nel silenzio, in un luogo ben riparato. Che non ci fossero rumori e se ci sono non sentirli, che non succedesse niente. Vorrei restare fermo, immobile, in posizione orizzontale, con gli occhi chiusi, senza tirare il fiato, senza sentire voci e campanelli, senza parlare. Al buio. Non avere nessun desiderio, nessuno che parla e nessuno che ascolta, così, al buio, con gli occhi chiusi.”

mercoledì 17 ottobre 2012

CENT’ ANNI DI SOLITUDINE: UN SOGNO A OCCHI APERTI



 “Aureliano, il primo essere umano nato a Macondo, era silenzioso e riservato. Aveva pianto nel ventre di sua madre ed era nato con gli occhi aperti. Mentre gli tagliavano l’ombelico girava la testa da una parte e dall’altra, osservando le cose della stanza, ed esaminava il viso della gente con curiosità priva di stupore. Un giorno, all’età di tre anni, entrò in cucina proprio mentre la madre Ursula toglieva dal focolare e collocava sul tavolo una pentola di brodo bollente. Il bambino, esitante sulla soglia, disse: < ora cadrà>. La pentola era ben posata nel mezzo del tavolo ma, non appena il bambino diede l’avviso, iniziò un movimento irrevocabile verso il bordo, come spinta da un dinamismo interiore, e si frantumò per terra. Divenuto colonnello, Aureliano promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse i quali furono sterminati uno dopo l’altro in una sola notte. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatre imboscate e ad un plotone d’esecuzione. Sopravvisse ad una dose di stricnina nel caffé che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo.  Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi venti anni di guerra civile. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale.” [1]

“Appena si affacciava all’adolescenza Remedios la bella era già la creatura più bella che si fosse mai vista a Macondo. Era di una bellezza inquietante tanto che Ursula non la faceva uscire di casa se non per andare a messa ma costringendola comunque a coprirsi la faccia con uno scialle nero. Gli uomini frequentavano la chiesa con l’unico proposito di vedere anche solo per un attimo il viso di Remedios della cui avvenenza leggendaria si parlava con un fervore rimescolante in tutta la palude. Passò molto tempo prima che ci riuscissero e meglio sarebbe stato per loro che l’occasione non fosse mai giunta perché la maggior parte di loro non  poté mai più ricuperare la tranquillità del sonno. In realtà, Remedios la bella non era un essere di questo mondo. Pur molto avanti nella pubertà, non sapeva badare a se stessa e, anche quando cominciò a farlo, bisognava comunque sorvegliarla perché non disegnasse pupazzetti sui muri con un bastoncino intinto nella sua stessa cacca. Compì i venti anni senza saper né leggere, né scrivere, né servirsi delle posate a tavola, e girava nuda per la casa perché la sua natura si opponeva a qualsiasi tipo di convenzionalismo. Gli uomini non riuscirono mai a capire che non era una criminale provocazione la sfacciataggine con la quale si scopriva le cosce per sopportare meglio il caldo, e il gusto col quale si succhiava le dita dopo aver mangiato con le mani. Remedios la bella emanava un alito di conturbamento e una raffica di angoscia: gli uomini affermavano di non aver mai sofferto un’ansietà simile a quella che produceva l’odore naturale di Remedios. Dopo la morte di quattro uomini che erano in qualche modo entrati a contatto con Remedios si cominciò a pensare che ella avesse poteri di morte. Benché certi uomini dalla parola facile si compiacessero di affermare che valeva la pena di sacrificare la vita per una notte d’amore con una donna così conturbante; la verità era che nessuno mosse un dito per cimentarvisi. Forse, non solo per farla capitolare ma altresì per scongiurarne i pericoli, sarebbe bastato un sentimento tanto primitivo e semplice, come l’amore, ma quella fu l’unica cosa che non venne mai in mente a nessuno. Remedios la bella rimase così a vagare per il deserto della solitudine e nei suoi profondi e prolungati silenzi senza ricordi, fino ad un pomeriggio di marzo in cui Fernanda volle piegare in giardino le sue lenzuola di fiandra e chiese aiuto alle donne di casa, tra cui Remedios che,mentre piegava le lenzuola, improvvisamente cominciò a sollevarsi verso il cielo e a salutare con la mano tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei  e si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.”[2]

I passi sopra riportati introducono due tra i più importanti personaggi del romanzo Cent’anni di solitudine, pubblicato per la prima volta nel 1967. Grazie a tale opera , Gabriel Garcia Marquez vinse nel 1982 il premio Nobel per la letteratura. 
Lo stile dello scrittore colombiano, capace di esprimere tutto il suo portentoso genio creativo, invade i sentimenti e gli occhi del lettore, trasportandolo in un universo nel quale è libero di scavare nell’anima dei personaggi, conoscendone ogni pregio e ogni difetto, e vivendo con ognuno di essi irripetibili emozioni. Nel romanzo Marquez riesce nell’impresa di creare un mondo in cui realtà e fantasia si mescolano in un impasto narrativo ai limiti dell’onirico, e nell’intento di raccontare  tutto il “suo mondo[3].  Il lettore, infatti, non fa di Macondo, luogo immaginario del romanzo, una mera illusione, ma una realtà vivificata da personaggi fantastici nei quali ci si può identificare proiettando il proprio destino nel loro.
Cent’anni di solitudine riflette soprattutto il mondo dell’infanzia dell’autore, trascorsa con i nonni  in una casa molto triste e molto grande, con una sorella che mangiava terra [4], una nonna che indovinava il futuro e numerosi parenti  dai nomi tutti uguali [5] che non distinguevano bene la felicità dalla demenza. Lo stesso villaggio in cui l’autore colombiano trascorse la sua infanzia è in realtà la trasposizione reale di Macondo, e la devastazione che esso subisce a causa del progresso, è la stessa che mette a soqquadro la tranquilla e primitiva vita dei personaggi del romanzo.
Tutto è possibile a Macondo: le stuoie possono volare, i morti possono resuscitare, ci possono essere piogge di fiori, può comparire la peste del sonno; Rebeca può mangiare terra e calcinacci e girovagare con un zainetto sulle spalle contenente le ossa dei genitori morti. Possono nascere figli con la coda di maiale da genitori non ottemperanti al divieto dell’incesto; un vecchio delirante, divorato dalla demenza senile, può aspettare la propria morte legato a un castagno,  macerato dal sole e dalla pioggia; ci possono essere spettri che camminano per la casa e spostano gli oggetti; ci può essere Amaranta che inizia a tessere il proprio sudario per ordine della Morte in persona, e muore non appena ha terminato l’opera. Tutto ciò fa parte del cosiddetto Realismo Magico, poetica situata a metà strada tra l’elemento magico e onirico e la rappresentazione realista. Tale obiettivo viene raggiunto da Marquez mediante una descrizione precisa e meticolosa della realtà che non tralascia alcun dettaglio; nello stesso tempo lo scrittore colombiano riesce a ottenere un effetto di straniamento attraverso l’uso di elementi magici descritti altrettanto realisticamente: in tal modo si resta inizialmente stupiti, incantati e increduli di fronte alla quasi assurdità del fenomeno magico descritto ma poi, a mano a mano che Marquez incrementa i particolari realistici, si comincia a credere realmente a questi fenomeni che, da assurdi e impossibili, diventano reali e incredibilmente belli agli occhi del lettore, perché carichi di sfondo magico. Il Realismo Magico investe anche una delle figure chiave del romanzo, Remedios la bella, il personaggio più poetico e surreale tra quelli del romanzo, femmina di una bellezza inquietante, capace di far impazzire ogni uomo, la cui natura si oppone a qualsiasi tipo di convenzionalismo. Esempio memorabile di realismo magico è la sua miracolosa ascesa al cielo, come  uno spirito dalle ali di carta .Magici non sono solo i personaggi ma anche il tempo che non scorre mai ma si ripete in modo sempre eguale protraendo fino all’inverosimile la vita dei personaggi [6]. In questa intricata narrazione, sempre a metà strada tra l’onirico e il concreto, non si riesce mai a intendere bene se i luoghi descritti siano davvero reali o sospesi in una dimensione fantastica. Così  il personalissimo tono di G. G. Marquez,che con geniale creatività riesce a fondere simbolismo, mitologia e realtà, diventa esso stesso leggenda. Quello dello scrittore colombiano è uno stile tumultuoso, permeato dei toni della follia, con una struttura narrativa ardimentosa ed un linguaggio potente e suggestivo che dà vita a un’opera superlativa, illogica e, proprio per questo, inconfondibilmente unica.
Cent’anni di solitudine è, come evidenziato dal titolo, anche il romanzo della solitudine, sentimento dominante che investe i personaggi e li accompagna nelle loro avventure: è questo il caso, per esempio, di Aureliano Buendia, espressione perfetta della solitudine dell’uomo. Egli, infatti, scartando la tentazione della violenza, in una continua ricerca della giustizia, troverà scampo solo nella solitudine assurda e grottesca,  finendo i propri giorni relegato in un laboratorio a fabbricare pesciolini d’oro. Per solitudine si intende soprattutto mancanza d’amore, sentimento con il quale i personaggi del romanzo, e in particolare le donne, non sembrano avere molta dimestichezza a causa della loro ostinazione a respingere i vari pretendenti, come nel caso di Amaranta che sottopone Pietro Crespi a infiniti tormenti fino a farlo morire e frustra la vita ed i sentimenti del colonnello Gerinaldo Marquez, costringendolo ad un lento ma inesorabile martirio.
Pur avendo soprattutto una veste fiabesca, il romanzo può però essere letto come un rimando alla realtà storico-sociale dei paesi latino-americani sconvolti, assoggettati e annientati dall’imperialismo dei paesi moderni e tecnologicamente avanzati come gli Stati Uniti, dilaniati dalle guerre civili, oppressi dalle dittature e condannati al sottosviluppo. Macondo che rappresenta l’America latina, vive all’inizio dei suoi cento anni in uno stato d’ innocenza da paradiso terrestre in cui tutti gli uomini sono pacifici al punto di non morire se non di morte naturale, in cui gli abitanti si dividono la terra e introducono migliorie “senza dare fastidio ad alcun governo e senza che qualcuno dia fastidio a loro”; il paese si presenta privo di violenza, dedito alla solidarietà ed al bene comune. Con il tempo però le cose cominciano a cambiare perché l’intrusione graduale di altre genti, estranee al villaggio (commercianti, militari, colonizzatori), spezza l’armonia e l’equilibrio originario, insinuando corruzione e violenza. Macondo evolve verso forme di vita civile sofisticata e tecnologica (inaugurazione della ferrovia, installazione del telefono, arrivo della compagnia bananiera, etc), ma si avvia ad una fatale involuzione morale e alla rovina totale testimoniata dall’imputridire e incancrenire della natura. La storia di Macondo riflette, quindi, gli eventi storici che contraddistinguono la Colombia e i paesi latino-americani in genere: nelle trentadue guerre fatte dal colonnello Aureliano Buendia, rappresentante della rivoluzione contro il governo conservatore e nell’ arrivo a Macondo della compagnia bananiera è evidente una feroce polemica di G. G. Marquez nei confronti del proprio paese e dell’ingerenza politica, culturale ed economica esercitata dagli Stati Uniti che sono visti come la causa dell’instabilità politica dell’America latina. Le situazioni di Cent’anni di solitudine sono fantastiche ma riflettono la realtà; per non soffrire si cancella la memoria ed ecco, perciò, comparire a Macondo la peste del sonno, malattia che non  fa dormire e che non provoca nemmeno stanchezza, con l’unico effetto collaterale della perdita della memoria. Così, per non soffrire, si dimentica il massacro dei lavoratori della compagnia bananiera, incitati allo sciopero, si dimentica il trasporto nei vagoni del treno  dei loro cadaveri, sistemati nell’ordine e nel senso con cui si trasportano i caschi di banane. Nessuno crederà, dopo quello scempio, alla versione dello sterminio e dell’incubo del treno carico di morti diretti verso il mare, come se niente fosse avvenuto.
Molti sono coloro che hanno giustamente celebrato il capolavoro di Marquez: tra questi, lo scrittore italiano Alessandro Baricco, autore di Oceano mare ,il quale  ha definito Cent’anni di solitudine come un romanzo popolato da personaggi passionali, all’interno dei quali non ci sono tante storie ma una sola: la storia di tutte le donne che sono in una donna e di tutti i padri che sono in un padre[7].
Non mancano tuttavia i detrattori del capolavoro, come Pier Paolo Pasolini il quale affermò che era un’idiozia definire il romanzo di Marquez un capolavoro in quanto si trattava dell’opera di uno scenografo o di un costumista burlone che aveva fatto cadere nella sua trappola numerosi sciocchi[8].
A mio parere non si può fare a meno di leggere un capolavoro  come Cent’anni di solitudine, libro unico e straordinario, che ha il rarissimo dono di far venire fuori da un po’ di pagine di carta  un sogno a occhi aperti.



 Il Funambolo- Ratti della Sabina
Son maestro di follia,
vivo la mia vita sulla fune
che separa la prigione della mente
dalla fantasia.
Il mio futuro è nel presente
e ogni giorno allegramente
io cammino sul confine immaginario
dell'orizzonte mentre voi,
signori spettatori, mi guardate dalla strada,
cuori appesi ad un sospiro
per paura che io cada
ma il mio equilibrio è in cielo
come i sogni dei poeti,
mai potrei viver come voi
che avete sempre la certezza della terra sotto i piedi.
Son maestro di pazzia,
e vola sulla corda la mia mente
a rincorrere i pensieri
a inseguire l'utopia
di catturare almeno un oggi
prima che diventi ieri
e provare a far danzare il tempo.
Signori spettatori lo spettacolo è finito,
vi saluto con l' inchino,
sempre in bilico sull' orlo del destino
e un sorriso avrò per tutti voi,
che vediate nel funambolo un buffone
o che vediate in lui un artista
e ringrazio chi ha disegnato questa vita mia perchè
mi ha fatto battere nel petto il cuore di un equilibrista.

BIBLIOGRAFIA

1) GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine, Arnoldo Mondatori editore, 1982.
2) Intevista rilasciata da Garcia Marquez a Plinio Mendoza e apparsa su Repubblica il 16.01.2002.
3) ALESSANDRO  BARICCO, lezione  universitaria su Cent’anni di solitudine.
4) PIER PAOLO PASOLINI.  Descrizione di descrizioni, Einaudi Torino 1979.


                                                                              MARCO ADORNETTO




[1]GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine.
[2] GABRIEL GARCIA MARQUEZ, Cent’anni di solitudine.
 [3] Secondo Stephane Mallarmè “ tutto il mondo esiste per essere raccontato in un libro”.
[4]   La sorella di Marquez presenta numerose analogie con Rebeca che mangiava terra umida dal patio e calcinacci che staccava dai muri con le unghie.
[5]  I protagonisti del romanzo, soprattutto quelli maschili, mostrano sempre gli stessi identici nomi: Aureliano, Arcadio, Josè Arcadio.
[6] Ursula è una presenza quasi costante nel romanzo tanto che morirà all’età di circa centoventi anni.
[7] ALESSANDRO BARICCO,  lezione universitaria su Cent’anni di solitudine.
[8]  PIER PAOLO PASOLINI, descrizione di descrizioni, Einaudi, Torino 1979.

giovedì 11 ottobre 2012

Inchiostro Alcolico: Argo Il Cieco di Gesualdo Bufalino


L'AUTORE
Gesualdo Bufalino, nato a Comiso in provincia di Ragusa nel 1920, è stato uno dei più grandi scrittori del 900', ed è considerato uno dei massimi rappresentanti della narrativa siciliana. Si tratta di uno scrittore "anziano", intriso di ricordi: quando esordisce corre l'anno 1981,Bufalino ha più di sessanta anni, e sbalordisce tutti con il suo capolavoro Diceria dell'Untore. Tra le sue opere, oltre ad Argo il Cieco, si ricordano i racconti de L'uomo invaso(1986), Le menzogne della notte (1988), il giallo parodistico Qui pro quo (1991), Calende greche (1992) e la favola  Il Guerrin Meschino (1993). Bufalino, dopo aver pubblicato il suo ultimo romanzo Tommaso e il fotografo cieco, muore nel 1996 a causa di un incidente stradale.

ARGO IL CIECO
Argo il cieco è la sua seconda opera, pubblicata nel 1984. Si tratta di una sorta di diario-romanzo che narra i sogni della memoria di un anziano sessantenne, alter-ego dello stesso scrittore. Il protagonista ripercorre, in un'atmosfera incantata e quasi fiabesca, le sue avventure giovanili. L'anziano si trova nella stanza d'albergo di una Roma invernale e piovosa, intento a rievocare se stesso trentenne nel 1951, in una città siciliana, Modica, estiva e luminosa. Scorre un juke-box di  ricordi programmato a disubbidire, scorrono soprattutto gli amori della sua gioventù per le brune e avvenenti ragazze siciliane, che si sporgono ridenti dai davanzali e dai balconi delle loro case. C'è quindi uno sdoppiarsi dell'io in due città e due età diverse che provoca nel lettore un felice effetto disorientante, ipnotico e allucinatorio.

UN BICCHIERE D'INCHIOSTRO RAGUSANO

"Il luogo dell'incantesimo si nascondeva là, in un angolo della cucina dove c'era la boccia del pesce. Qui l'attenzione degli avventori tornava ogni cinque minuti sui guizzi del carcerato che parevano, nel loro apparente capriccio, eseguire un intreccio di mutole melodie, svelando e velando la celeste cabala della stagione."

"Ero un bambino vecchio allora, invecchiato dalla vita e dai libri, ma sempre bambino. Quanto può esserlo chi sulle cose spalanca, appena si sveglia, due pupille grandi che si sorprendono."

"Silenzi blu della notte neonata, quando, varcando il debole paravento dei muri, sale dalla strada al nostro cuscino, ma subito s'attutisce e si spegne, il passo d'un solitario (ubriaco a zonzo, mammana che rincasa, accalappiacani zelante, adultero del giovedì), e quel sigillo termina il giorno come una mano abbassa morbidamente un sipario."

"All'avventura e ai suoi movimenti ho sempre attribuito nella mia vita virtù di ginnastica igienica. Quanto più salutari, i batticuori, dei malincuori, dei crepacuori! Ricordo che da bambino, per andare a rubare nelle vigne, sceglievo le notti di luna piena e le viti più vicine al campiere addormentato: e che spavento, che delizia, mentre poppavo con le labbra i grappoli come grosse e brune mammelle."

"Perfino il gusto del fantasticare, questo spasso mio del teatro a occhi chiusi, sono felice ogni volta che posso pervertirlo in un rischio della mente. Quasi volessi emulare da fermo il sonnambulo che passeggia su un davanzale largo due palmi e ripeterne nel pensiero le fatali anestesie."

"Il tuo amore è un disordine,una pura fata morgana, polvere negli occhi per frastornarmi."

"Questa cominciava, appena alzata, in pantofoline e vestaglia, a battere con un battipanni un tappeto e già con questa sua musica a introdursi nel mio dormiveglia."

"Pensavo ai miei amori, dicendomi ch'erano infatuazioni, prima che per una donna, per me stesso; e che potevano essere tanti nel medesimo tempo, perché in ognuna amavo me solo. Bisogna prima innamorarsi di sé per potersi innamorare di un'altra."

"Senza preavviso ma dolcemente mi conquisto il difficile orgasmo delle lacrime."

"Non pioveva , ma il vetro del cielo s'era come affumicato, una malanotte si preparava. Noi, senza cappello, esaltati dal vino, guardavamo la valle, le minuscole case, laggiù, i minuscoli uomini, ognuno con la sua pace, con la sua guerra, con il suo borbottare del sangue entro le arterie ad ogni istante più dure."






"Dopo pranzo si andava a riposare
cullati dalle zanzariere e dai rumori di cucina;
dalle finestre un po' socchiuse spiragli contro il soffitto,
e qualche cosa di astratto si impossessava di me."



mercoledì 10 ottobre 2012

Inchiostro Alcolico




Mi è venuta una strana idea che voglio mettere in pratica. Una volta a settimana o ogni due settimane, questo non dipende da me ma dal mio barista, curerò sul mio blog una sorta di rubrica, chiamata Inchiostro Alcolico, in cui di volta in volta presenterò un libro attraverso le parole alcoliche che ci sono lì dentro. Le parole alcoliche sono le parole che ogni libro ti lascia dentro. Sono quelle parole che ti incantano e ti lasciano come sospeso e libero in aria  provocandoti un' ubriacatura senza gli effetti collaterali tipici della sbronza tradizionale. La rubrica Inchiostro Alcolico si terrà presumibilmente ogni giovedi perché e il giorno di chiusura del mio bar preferito, e quindi per quel giorno dovrei essere libero. Solo che ogni tanto il barista Salvuccio fa degli scherzetti, e tiene il bar aperto anche di giovedì. Ecco perché non dipende da me, ma dal mio barista Salvuccio che, tra le altre cose, vi saluta tutti aggiungendo che vi stima tantissimo.

Tic Tac



Uno dei quattro gatti che segue il mio blog mi ha chiesto perché mai l'ho chiamato Tic Tac. E' presto detto. Tic Tac perché vorrei che i post che pubblico fossero come quelle caramelline, pillole gustose e leggere, preparate per dare freschi momenti di piacere. Tic Tac perché la mia canzone preferita, Il giocatore di biliardo di Branduardi, a un certo punto fa "tic tac, per ogni geometria ci vuol fantasia,tic tac". E questo è tutto, tic tac.


lunedì 1 ottobre 2012

I giocattoli sotto l'albero



"Cosa può accadere sotto l'albero di Natale nel momento in cui i genitori frastornano il bambino con una montagna di giocattoli? Sono state acquistate per lui tutte le ultime diavolerie tecnologiche, i marchingegni più sofisticati e pubblicizzati e costosi, ma quella peste, chissà perché, non li degna di uno sguardo. E concentra la propria attenzione sull'oggetto che agli occhi dell'adulto appare meno attraente. Magari su quello più povero, elementare, primitivo. Come è potuto accadere? Quali strade misteriose segue il suo desiderio? Il bambino giocando a quel gioco che ha scelto impara a riconoscersi come tale e contemporaneamente impara a prendere le misure del mondo adulto, irridendolo e mettendone a nudo l'inconsistenza. A cominciare dall'idea di tempo. Per i grandi "il tempo è denaro", e rammentano di continuo al piccolo che "un bel gioco dura poco": niente di più falso, visto che il gioco più bello deve, alla lettera, ripetersi all'infinito. Il fatto è che l'adulto prova in tutti i modi a porre limiti e regole quanto mai strette, perché sa che il bambino che gioca non è più sotto il suo controllo. E giocando, mette continuamente in crisi le fondamenta del suo mondo e la sua presunta seriosità. Ma questa non è soltanto una prerogativa dei bambini: ci sono poeti e filosofi che la pensano allo stesso modo. E allora non sarebbe male se almeno ogni tanto l'adulto se ne ricordasse, lasciando desta dentro di sé la voce interiore del bambino che un giorno lui stesso è stato e che sta lì a ricordargli come nell'esistenza si gioca e si è giocati al medesimo tempo. Cos'altro intendeva suggerire l'inarrivabile Montaigne, quando si chiedeva se era lui a trastullarsi con la gatta, o piuttosto la gatta a trastullarsi con lui?"

Franco Marcoaldi