giovedì 29 novembre 2012

Un'aria spessa carica di sale e gonfia di odori: La città vecchia di Fabrizio de Andrè




1965. Gambia e Singapore proclamano la loro indipendenza, Charles de Gaulle viene eletto presidente della repubblica francese, esce il film Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, l’Inter vince la coppa dei campioni, nasce il gruppo musicale dei Pink Floyd.
Nello stesso anno il venticinquenne cantautore genovese Fabrizio de Andrè incide in Viale Pola a Roma, presso i locali degli studi Dirmaphon, il suo ottavo 45 giri che, oltre  a Delitti di paese, contiene il capolavoro La città vecchia.  La copertina raffigura un trascurato ma affascinante vicoletto genovese, in cui è presente, in primo piano, un gatto nero.
Ne La città vecchia De Andrè, ispirandosi all’ omonima poesia di Umberto Saba, attraverso una musicalità piacevole e coinvolgente,  ci fa “vedere” i semplici atti di vita quotidiana di un "popolo minore", quello che passa intere giornate nelle vicinanze del porto di Genova, respirando “un’aria spessa, carica di sale e gonfia di odori”. Ci sono le prostitute e il vecchio professore che va da una di loro[1], spendendo dieci mila lire del suo stipendio per sentirsi dire "micio, bello e bamboccione”. Quattro pensionati mezzo ubriachi seduti al tavolino parlano del più e del meno, bestemmiando tra un discorso e l’altro. Non mancano i ladri e gli assassini. E infine c’è il tipo strano, “quello che ha venduto per tre mila lire sua madre a un nano.”  E tu, quando ascolterai questa canzone, le cose che hai "visto" non te le scorderai più.













Città vecchia di Umberto Saba

(da Trieste e una donna, 1910-12)

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.


La città vecchia di Fabrizio de Andrè

Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi,
una bimba canta la canzone antica della donnaccia
quello che ancor non sai tu lo imparerai solo qui tra le mie braccia.

E se alla sua età le difetterà la competenza
presto affinerà le capacità con l'esperienza
dove sono andati i tempi di una volta per Giunone
quando ci voleva per fare il mestiere anche un po' di vocazione.

Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino
li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno
a stratracannare a stramaledire le donne, il tempo ed il governo.

Loro cercan là, la felicità dentro a un bicchiere
per dimenticare d'esser stati presi per il sedere
ci sarà allegria anche in agonia col vino forte
porteran sul viso l'ombra di un sorriso tra le braccia della morte.

Vecchio professore cosa vai cercando in quel portone
forse quella che sola ti può dare una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie.
Quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie.

Tu la cercherai, tu la invocherai più di una notte
ti alzerai disfatto rimandando tutto al ventisette
quando incasserai dilapiderai mezza pensione
diecimila lire per sentirti dire "micio bello e bamboccione".

Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
In quell'aria spessa carica di sale, gonfia di odori
lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.

Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.





[1] Nella prima versione del testo era riportata la parola “troia” che nella successiva versione censurata viene trasformata in “pubblica moglie” 

mercoledì 21 novembre 2012

L’IRONIA DI RINO GAETANO E IL SUO BAR DAL CIELO BLU







Nei difficili e complessi anni Settanta Rino Gaetano è uno di quei pochi artisti e di quei pochissimi cantautori che utilizza a piene mani e con grandi risultati l’ironia. Già nei primi tempi, quando era ancora giovanissimo e cantava al Folkstudio, nel quartiere di Trastevere, in tanti non volevano che cantasse i suoi pezzi perché sembrava che con le sue parole volesse prendere in giro tutti.
Rino Gaetano era consapevole del fatto che l’ironia è sempre stata un’arte tipica dell’Italia e degli italiani. Il disarmante e ipnotico cantautore di origini calabrese afferma infatti che “l’ironia non è solo una cosa mia, è l’arte di tutti gli italiani. Soltanto che adesso (siamo negli anni Settanta ma vale anche per oggi) l’ironia la vogliono nascondere. Sono tutti molto impegnati, molto tristi, molto macabri”. E secondo Rino Gaetano non c’è cosa peggiore di essere tristi, di essere macabri.  Perché “l’Italia è da sempre stata patria di grandi comici come Totò, come Petrolini, mentre adesso ci sono soltanto scrittori che scrivono libri tristi e impegnatissimi, cantanti che scrivono canzoni tristi, per non parlare dei film. In Italia non esistono più bei film comici”.
Rino Gaetano era uno che l’ironia la metteva in qualsiasi cosa che faceva. L’ironia era l’ingrediente fondamentale e imprescindibile della sua  musica. Le sue canzoni sono attuali ancora oggi dopo quarant'anni, e lo saranno sempre proprio perché sono ironiche, di un’ironia perfetta.
Dove la prendeva Rino Gaetano quest’ironia? Per strada e, soprattutto nei bar. Il suo bar preferito era “il bar del Barone”, in cui il cielo era sempre blu: un posto semplice frequentato da gente semplice, un luogo popolare, in cui la norma era bere birra chiara in lattina. Per Rino Gaetano quel bar era un posto meraviglioso, ed è lì che nascono le sue canzoni. Gaetano era uno che il bar lo considerava come una seconda casa, era uno che stava nel bar e sentiva le voci della gente che girava e ronzava attorno al bar come faceva lui. Nel bar trovava la giusta ispirazione, osservando gli sguardi delle persone, e ascoltando i loro dialoghi strampalati. Poi tornava a casa, prendeva il suo quaderno e si scriveva le voci che aveva sentito al bar. Si rileggeva queste frasi e cominciava ad accompagnarli con la chitarra cercando e trovando la giusta ispirazione musicale. Metteva tutto insieme, e così, con questa perfetta semplicità, nasceva la sua canzone, la canzone di Rino Gaetano. Ascoltando le sue canzoni si può immaginare il suo sorriso, a volte frivolo a volte beffardo, che coglie l’essenziale delle cose e le contraddizioni del mondo, ma anche la bellezza e la spontaneità della vita di tutti i giorni, della vita di Rino Gaetano che in fondo è  anche la nostra vita.


Marco  Adornetto











Tu Forse Non essenzialmente tu


Tu, forse non essenzialmente tu
Un'altra, ma è meglio fossi tu
Tu, forse non essenzialmente tu
Hai scavato dentro me e l'amicizia c'è
Io che ho bisogno di raccontare, io,
La necessità di vivere rimane in me

E sono ormai convinto da molte lune 
dell'inutilità irreversibile del tempo
mi sveglio alle nove e sei decisamente tu
e non si ha il tempo di vedere la mamma e si è gia nati
e minuti rincorrersi senza convivenza
mi sveglio e sei decisamente tu

Forse non essenzialmente tu
e la notte confidenzialmente blu
cercare l'anima

Tu, forse non essenzialmente tu
Un'altra, ma è meglio fossi tu

E vado dal Barone ma non gioco a dama
E bevo birra chiara in lattina
Testo trovato su http://www.testitradotti.it
 
Me ne frego e non penso a te
Avrei sempre bisogno di un passaggio
Ma conosco le coincidenze del 60 notturno
Lo prendo sempre per venir da te

Forse non essenzialmente tu
e la notte confidenzialmente blu
cercare l'anima

mercoledì 14 novembre 2012

L' Anima dei calzini



Negli Anni Trenta appare a Vienna un libretto del filosofo e pittore Gottfried Schlimm intitolato L’anima dei calzini (Die Seele der Söckchen), riscoperto grazie alla premurosa e infaticabile passione per la cultura mitteleuropea di Alba Frosini, docente di Letteratura e Lingua tedesca all’università di Bologna, che ne ha curato la traduzione italiana presso l’editore Rumma di Ancona (pp. IX + 67, Euro 18,00).
Schlimm è un fanatico dell’eleganza, - scrive la Frosini nella prefazione a L’anima dei calzini - un dandy che si atteggia a pensatore raffinato, che accomuna la vita elegante all’«arte di spendere il proprio reddito da uomo di spirito», un esteta per il quale l’elegantologia è una «scienza che ci insegna a non far nulla come gli altri, pur sembrando far tutto come loro», definizioni riprese fedelmente dal Traité de la vie élégante di Balzac, testo che lo stesso Schlimm ha tradotto in tedesco per una rivistina di poesia, arte e spettacolo, Die Meistersinger (I maestri cantori), pubblicata a Linz nel maggio del 1934, e non andata oltre il primo numero.
Per tutta la vita Schlimm ha inseguito tenacemente un unico modello di perfezione. Un modello che lo ha portato per tutta la vita a dipingere calzini, sempre e solo calzini, al pari di ciò che fece, molti anni più tardi, Clément Cadou con i mobili (cfr. il saggio di Georges Perec, Ritratto dell’autore visto come un mobile, sempre, che figura anche, al n. 56, in MIRABIBLIA. Catalogo ragionato di libri introvabili, Bologna, Zanichelli, 2003).
Calzini nelle posizioni più disparate: sopra una sedia; dentro una cesta di panni sporchi; sul pavimento o sopra un letto in disordine; appesi a un filo, come ginnasti a testa in giù, tenuti fermi dalla presa sicura delle mollette; abbandonati in un viottolo di campagna; messi ad asciugare vicino a una stufa a legna; arrotolati dentro un paio di scarpe nere, imbrattate di fango; oppure sporgenti da un cassetto semiaperto, nuovi, con il cartellino di vendita ancora bene in vista.
Misteriosamente, soltanto in due tele (Il tavolo a mezzogiorno, 1934, cm 20x40, e Visione sotto la luna, 1938, cm 45x75), i calzini non hanno il ruolo di protagonisti, ma s’intravedono di lato o sullo sfondo, seminascosti dietro insignificanti nature morte - vasi da fiori, bottiglie o pesci con gli occhi tristi e spaventati.
I quadri di Schlimm, ispirati a un’evanescente plasticità del cotone, della seta, della lana, ci mostrano, in varie posizioni e atteggiamenti, calzini accoppiati in perfetto ordine e di genere maschile. Su quest’ultimo dettaglio, la Frosini non nasconde il suo disappunto sottolineando come la misoginia che traspare dai calzini dipinti da Schlimm s’intrecci (è proprio il caso di dirlo) a un’altra loro caratteristica, anch’essa densa di significati reconditi, ovvero la mancanza di buchi e di frinzelli, una costante nell’immaginario calzinesco del pittore viennese.
In un solo caso, adagiato su una spiaggia deserta, sotto un cielo plumbeo che minaccia di aprirsi in temporale, Schlimm ha dipinto un calzino desolatamente orfano del suo gemello (l’opera del 1922, cm 40x70, s’intitola emblematicamente Lontananza).
Cedendo a un impulso giocoso c’è poi un quadro (l’unico del genere) - L’accostamento non voluto del 1937, cm 70x100 – dove Schlimm ha raffigurato due calzini spaiati, uno blu e l’altro grigio perla, con un ricamo sulla parte alta, che sembrano guardarsi in modo affettuoso, ammiccare divertiti in una marea di libri sparsi qua e là su una scrivania, dietro la quale si scorge, appeso a una parete illuminata dal sole, un calendario con i numeri e le lettere del mese in rosso su uno sfondo bianco. Il calendario indica la data del 7 dicembre 1898, che poi è la data di nascita dell’artista.
Se è vero che i calzini hanno un’anima - scrive Schlimm cercando di dare un senso alla propria ossessione - questa si manifesta nella loro inconfondibile forma, lunga e corta, nella trama dei disegni che ne abbelliscono lo slancio, nei colori, nella morbidezza avvolgente del loro tessuto, che è poi il loro vissuto, fatto di giri a rovescio, di lussuose trasparenze, di odori mal celati, di piccolissime smagliature che, come succede ai bozzoli da cui fuoriescono le farfalle, si tramutano con il tempo in spiragli di luce. 
Poi conclude il libro con questa melanconica riflessione:
"Paradossalmente l’anima dei calzini si nasconde là dove meno ci si aspetterebbe di trovarla, sul filo impercettibile della loro salda aderenza alle gibbosità del mondo, contatto che ci fa sentire vivi, sebbene precariamente vacillanti e di passaggio."

Tratto dal testo di Paolo Albani contenuto nella rivista Il caffè illustrato, n. 12






 Il paradiso dei calzini di Vinicio Capossela

Dove vanno a finire i calzini 
quando perdono i loro vicini 
dove vanno a finire beati 
i perduti con quelli spaiati 
quelli a righe mischiati con quelli a pois 
dove vanno nessuno lo sa 
Dove va chi rimane smarrito 
in un’alba d’albergo scordato 
chi è restato impigliato in un letto 
chi ha trovato richiuso il cassetto 
chi si butta alla cieca nel mucchio 
della biancheria 
dove va chi ha smarrito la via 
Nel paradiso dei calzini 
si ritrovano tutti vicini 
nel paradiso dei calzini.. 
Chi non ha mai trovato il compagno 
fabbricato soltanto nel sogno 
chi si è lasciato cadere sul fondo 
chi non ha mai trovato il ritorno 
chi ha inseguito testardo un rattoppo 
chi si è fatto trovare sul fatto 
chi ha abusato di napisan o di cloritina 
chi si è sfatto con la candeggina 
Nel paradiso dei calzini.. 
nel paradiso dei calzini 
non c’è pena se non sei con me 
Dov’è andato a finire il tuo amore 
quando si è perso lontano dal mio 
dov’è andato a finire nessuno lo sa 
ma di certo si trovera’ la’.. 
Nel paradiso dei calzini 
si ritrovano uniti e vicini 
nel paradiso dei calzini 
non c’è pena se non sei con me 
non c’è pena se non sei con me

venerdì 9 novembre 2012

Inchiostro Alcolico: Il Poema dei Lunatici di Ermanno Cavazzoni



                                                                       L’AUTORE
Ermanno Cavazzoni, nato a Reggio Emilia nel 1947, è uno scrittore originale, eclettico e sorprendente.  Egli è convinto che, quando si scrive, bisogna produrre delle cose un po’ sgangherate che creino stupore nel lettore. La sua è una letteratura fondata sul gusto del farneticare delle parole e su di una comicità che suscita meraviglia. A definire nel migliore dei modi lo stile cavazzoniano ci ha pensato il critico letterario Epifanio Ajello, il quale afferma che la sua scrittura  è come un suono che si unisce al disegnare; ma un disegnare che sbava via dai contorni delle cose, tipico dei bambini con gli album da colorare. E si rimane stupiti dal guazzabuglio di colori fuori dalle linee imposte delle cose o dei personaggi nei fogli del libro. E tutto sembra più bello, mostrando come sia possibile fare dell’altro fuori dalle regole. Tra le opere di Cavazzoni, oltre a Il poema dei lunatici (1987), che è considerato unanimemente il suo capolavoro, si ricordano: Le tentazioni di Girolamo (1991), romanzo ambientato in una bizzarra biblioteca notturna frequentata da strampalati lettori insonni; Vite brevi di idioti (1994), una raccolta di biografie di matti paesani; il romanzo comico-onirico Cirenaica (1999); Gli scrittori inutili (2002), surreale e canzonatoria antologia comica di ritratti di scrittori ridicoli, equiparati a dei matti nevrotici;Storia naturale dei giganti(2007), una buffa enciclopedia sui giganti; e il favoloso bestiario comico Guida agli animali fantastici (2011).
 
                                                                       

                                                       IL POEMA DEI LUNATICI
Protagonista e voce narrante del romanzo è Savini, un personaggio stralunato e matto. Egli è un ricercatore di messaggi segreti, lasciati all’interno di bottiglie dentro ai pozzi, e di popolazioni invisibili e inesistenti. Porta avanti questa sua bizzarra missione attraversando una pianura padana incantata e surreale, e facendo strani e comici incontri con altri personaggi. In seguito a conversazioni con gente  stramba come lui, Savini raccoglie nuove informazioni, ma la sua strana missione, man mano che il viaggio prosegue verso luoghi sconosciuti e inesplorati, invece di farsi chiara e lucida, diventa sempre più confusa e intricata. Ad aumentare la confusione, a un certo punto dell’avventura, un altro personaggio altrettanto matto e nevrotico, il fantomatico e paranoico prefetto Gonella, si associa alla missione segreta del protagonista, facendogli credere di essere il suo capo e superiore, e dando a Savini l’incarico di intendente della sua immaginifica prefettura. Savini e Gonnella si integrano perfettamente con la loro stramberia, e assomigliano a una coppia di esploratori clown e donchisciotteschi: il primo girovaga per svolgere le sue strampalate ricerche, mentre il secondo esamina e interpreta le ricerche fatte. E i risultati delle scoperte fatti dai due non possono che essere comici e provocare il riso, perché appartengono al mondo di una matta immaginazione, e perché lo sguardo sghembo della strana coppia distorce il mondo in una continua e ilare allucinazione. Alla fine della vicenda questa continua confusione mentale porta alla perdita quasi completa dell’identità di Savini che non sa più chi è, e l’unica cosa che gli resta da fare è quella di ritornare dal manicomio dal quale era scappato, non si sa se realmente o solo in sogno, e mettersi a scrivere le avventure che gli sono successe.



UN ECCELLENTE INCHIOSTRO REGGIANO CON STRAORDINARI EFFETTI ALLUCINOGENI

"Quel giorno avevo il cervello distratto, e mi venivano dal sonno delle immaginazioni che mi facevan stupire”

“Mi ricordo che da bambino  stavo più che potevo sui tetti e vedevo il giorno che passava e la sera. Giravo sui tetti ed ero padrone di me,padrone di non essere nulla, in un livello che era intermedio col cielo e che non veniva considerato da nessuno .  Era un posto che avevo  scoperto da solo e ci andavo a girare perché ero insieme a terra e per aria e guardavo giù  e su e vedevo le cose bellissime perché erano un po’ tutte distanti e inspiegabili: giù vedevo la gente e le macchine , su vedevo tutti gli uccelli per aria e ero contento che andassero ognuno dove voleva. Poi mi piaceva vedere le nuvole al vento, che durano poco, e la luna, e le stelle, e le stelle cadenti. Pensavo che uno si può sedere sul tetto beato di non essere niente ma di essere contento cercando  di stare sempre più in alto e di scomparire. Io pensavo che i tetti avessero questo vantaggio e ci passavo molto tempo. La mia educazione l’ho avuta dai tetti, mio padre era l’aria del cielo e mia madre l’odore che viene su dalla terra. E io stavo tra mio padre e mia madre sui tetti e mi sono educato così."

“Io voglio bene al mio ferro da stiro che è un piccolo ferro tutto contento di andare a stirare. E’ un piccolo ferro che ha la sua spina, e ci stimiamo reciprocamente. Io lo prendo quando devo stirare, e lui mi sembra sempre molto contento, contento di me; e si dà da fare su tutta la biancheria, sulle camicie; e delle volte gli piace scherzare sui centrini o sulle tovaglie, e fa come se dovesse bruciarli,per farmi avere paura. Ma è uno scherzo tra noi, così, per ridere un po’”

“Nel complesso era una persona che non gli piaceva parlare, e preferiva parlare con gli occhi.”

“Si doveva essere perso in un dormiveglia sereno e improvviso, un dormiveglia da pomeriggio.”

“Intanto guardavo il barista che aveva una giacchetta bordò e sporgeva solo con quella da dietro il bancone;sembrava un direttore d’orchestra, anche se faceva la parte del perfetto barista. Era pettinato con una riga drittissima e prendeva un liquore secondo l’ordinazione, e lo serviva, abilissimo, nel bicchierino sul banco, e poi ghiaccio se ci voleva, o limone, e via dicendo, con i movimenti da vero maestro, e rispondeva: sì, no, o sissignore, e altre parole che significano che tutto va a meraviglia.”

“I sogni sono scherzi che fan le budella agli occhi e al cervello. Sono girandole fatte per ridere.”

“Secondo me le donne hanno un influsso che gira per aria, e se tu lo respiri e ti va dentro al sistema nervoso, allora sei fritto!”

"Io pensavo che le donne fossero una fantasia che ti viene a trovare, e non si sa quale ti capita. E che quindi fossero anche, come possibilità, galline, o che fossero ad esempio un vapore che ti fa soffrire, o un male di petto, o una febbre mentale, un'asma, oppure un venticello celeste, o in certi casi anche dei granchi o degli stantuffi. Cioè non si può dire niente di fisso o di certo sulle donne. Io quindi pensavo che le donne, nella loro sostanza, fossero tutta una fauna indecisa, cioè come un galoppo di sirene o orche marine che passa nel midollo spinale e dentro la fronte. E poi pensavo anche che fossero leopardi, cammelli, cornacchie, volpi, zanzare, formiche,eccetera all'infinito. Perché chi può sapere i casi che ci son nella vita di incantamento femminile?!"

“Mah! Qui non fanno altro tutti che dire e parlare. Alla fine poi che cos’è  che c’è  da dire? Che cosa? Che c’è poco da dire l’ho capito fin da bambino, poi dopo l’ho ancora capito meglio. Io sento che c’è in giro molto quest’abitudine di stare a parlare; come ad esempio dire che le cose stanno in un modo o in un altro, e così via. Non so perché prima credevo che fossi io uno che sta lì e non sa cosa dire. Ma poi invece ho visto che c’è poco da dire davvero.”



Raphael Gualazzi- Reality and Fantasy