domenica 21 settembre 2014

Mi ricordo di Joe Brainard: Come inventare una macchina del ricordo

Mi ricordo
di Joe Brainard
Edizioni Lindau



Joe Brainard è stato un pittore, poeta e scrittore americano che probabilmente non avrebbe lasciato grandi tracce se un bel giorno dell’estate del 1969, quando aveva solo ventisette anni, non avesse inventato quella che Siri Hustvedt definisce una vera e propria "macchina del ricordo". Il meccanismo di questa macchina è molto semplice e ce lo spiega con parole efficaci Paul Auster: "Scrivete le parole -Mi ricordo-, fermatevi per un momento o due, date modo alla vostra mente di aprirsi, e inevitabilmente ricorderete, con una chiarezza e una specificità che vi stupirà". Chiunque  può fare questo esercizio di memoria e di scrittura, riuscendo a rievocare momenti particolari di esperienze ormai lontane nel tempo. Ma il merito di Joe Brainard consiste nel fatto che, oltre ad aver scoperto questa potente macchina della rievocazione, egli la sa usare in modo impeccabile e incantevole. Quelli di Mi ricordo, infatti, sono dei meravigliosi e sorprendenti pezzettini di prosa che brillano per originalità e fantasia, e dimostrano quanto bravo sia l'autore a raccontare dei frammenti di vita vissuta con uno stile semplice ma coinvolgente che fa sì che il lettore resti, quasi ipnotizzato e attaccato alle pagine del libro.
I quasi millecinquecento ricordi del libro trattano degli argomenti più svariati, evidenziando gli innumerevoli interessi di Brainard, uomo curioso di tutto ciò che lo circonda.Tra le pagine di questo piccolo capolavoro si trovano ricordi legati a esperienze di ogni genere: Mi ricordo è infatti un contenitore e un collage di memorie in cui si può trovare qualsiasi cosa.

Molto spazio ha, com'è naturale nei ricordi, l’età dell’infanzia, epoca "colorata" e spensierata, piena di giochi,scherzi e passatempi di ogni sorta:
Mi ricordo le battaglie con i cuscini /  Mi ricordo Bel vestito!(si correva qua e là tirando su il vestito alle bambine e urlando Bel vestito! Mi ricordo quando i bambini inciampano, patapum! / Mi ricordo nascondino, e che sbirciavo quando facevo la conta/ Mi ricordo le pietre che raccogli qua e là e quando torni non sai cosa fartene.

Ecco poi descritti i pensieri buffi, ingenui e tipici di un bambino:
Mi ricordo quando pensavo che se uno faceva qualcosa i poliziotti lo mettevano in prigione / Mi ricordo che dicevano che se un nero si sposava con una bianca e facevano un bambino poteva uscire a pois bianchi e neri.

Lo scrittore americano racconta poi lo strano rapporto che aveva da piccolo con alcuni giocattoli e la sua curiosità di conoscere i loro meccanismi nascosti:
Mi ricordo che una volta rimasi a dir poco deluso scoprendo che nella pancia di un vecchio orsacchiotto c’era solo bambagia grigia e qualche filo rosso.

Non mancano le avventure e le marachellle in certi ambienti caratterizzati da regole ferree, come la scuola o la chiesa, che il Brainard bambino non riesce però a rispettare:
Mi ricordo il momento della comunione in cui era più difficile non ridere. Era quando dovevamo tirare fuori la lingua e il reverendo ci metteva sopra l’ostia. Le ostie avevano un buon sapore. Una volta ne trovai un barattolo intero in un armadietto nella sala del coro e ne mangiai un sacco. A mangiarne un sacco non sono buone come quando ne mangi una sola.

L'autore descrive anche i tragicomici esperimenti fatti da bambino sugli animali: 
Mi ricordo un caldissimo giorno d’estate, misi dei cubetti di ghiaccio nell'acquario e tutti i pesci morirono/ Mi ricordo che acchiappavo le lucciole e le mettevo in un barattolo con dei buchi sul tappo per poi liberarle il giorno dopo.

Il giusto risalto hanno pure i ricordi legati ai genitori:
Mi ricordo mia madre che raccontava le cose divertenti che avevo fatto da piccolo e che ogni volta diventavano più divertenti / Mi ricordo che da piccolo dicevo "urca!" ogni volta che vedevo una donna dai capelli rossi perché a mio padre piacevano le rosse e ci facevamo sempre una risata.

Brainard riferisce poi i propri gusti riguardo al cibo, rivelando i suoi giocosi modi di mangiare e i suoi estemporanei tentativi di accostare alimenti per produrre nuove ricette poi rivelatesi disgustose: 
Mi ricordo di aver scavato tunnel e città mentre mangiavo l’anguria / Mi ricordo che pensavo di aver fatto la scoperta del secolo quando mi venne in mente di mangiare i cereali con il succo d’arancia invece del latte, ma poi li assaggiai e facevano schifo/ Mi ricordo che il formaggio in polvere da mettere sugli spaghetti puzzava di piedi in modo piuttosto sospetto.

Meravigliose sono le osservazioni sull'incantamento prodotto dalla visione dei fenomeni naturali, e comici appaiono i primi esperimenti relativi alla piantagione di alcuni semi:
Mi ricordo arcobaleni nelle pozze oleose dell’asfalto dopo la pioggia/ Mi ricordo che se chiudi gli occhi rivolti al sole vedi tutto rosso/ Mi ricordo che una volta piantai di nascosto dei semi di anguria in cortile ma non successe un bel niente.

C’è infine spazio per i dubbi legati ai grandi misteri della vita: 
Mi ricordo che non capivo come i bambini potessero uscire da un buco così piccolo ( E non l’ho ancora capito). 

Diversi scrittori hanno tentato di imitare la perfetta e armonica struttura di I remember di Joe Brainard, e alcuni lo hanno fatto anche con buoni risultati, come lo scrittore francese Georges Perec in Je me souviens; ma ilMi ricordo di Joe Brainard resta tuttora, per i motivi sopra esposti, un’opera insuperata e insuperabile. 



giovedì 18 settembre 2014

Papere



Nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizioni assai leggiere, ma ricco e bene inviato e esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una donna moglie, la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. 
Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’età di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse; e veggendosi di quella compagnia, la quale egli più amava, rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo ma di darsi, al servigio di Dio e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni cosa per Dio, senza indugio se ne andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta se mise col suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da co­sì fatto servigio non traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de' santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa di sé dimostrandogli.
Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze: e quivi secondo le sue oportunità dagli amici di Dio sovenuto, alla sua cella tornava.
Ora avvenne che, essendo già il garzone d’età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov’egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: “Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò chè, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovine e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe' nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?”
Il   valente uomo, pensando che già questo suo figliolo era grande e era si abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: “Costui dice bene”; per che, avendovi ad andare, seco il menò.
Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali, tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza vedute no’ n’ avea, si cominciò forte a maravigliare e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva; e egli, avendola udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E così domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno: le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero.
A cui il padre disse: “Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch’elle san màla cosa”.
Disse allora il figliuolo: “O come si chiamano?”
Il   padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole desiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: “Elle si chiamano papere”.
Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non avea, non curatosi de' palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de' denari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: «Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere”.
“Oimè, figliuol mio,” disse il padre «taci: elle son mala cosa”.
A cui il giovane domandando disse: «O son così fatte le male cose?” “Sì” disse il padre.
E egli allora disse: “Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è, a me non è ancora paruta vedere alcuna cosa bella né così piacevole come queste sono. Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete più volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà sù di queste papere, e io le darò beccare”.
Disse il padre: “Io non voglia; tu non sai donde elle s’imbeccano!” e sentì incontamente più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi d’averlo menato a Firenze.

Giovanni Boccaccio, Il Decameron


Dario Fo, L'apologo delle papere 

domenica 31 agosto 2014

Formiche




Mio padre si accorgeva sempre in ritardo delle cose, e per questo particolare io l’ho sempre ammirato. Una volta eravamo a casa, lui e io da soli, mia madre era andata un paio di giorni dai nonni che abitavano lontano e stavano sempre male anche quando stavano bene e non avevano niente, e all’improvviso sono arrivate le formiche ( a casa abbiamo sempre dovuto combattere contro le formiche, ancora oggi non riesco a capire da dove arrivassero, visto che abitavamo al quarto piano). Prima ne era comparso un gruppetto, forse dieci o venti, non si riesce mai a contarle, le formiche. Dopo cinque minuti ne era arrivata un’intera truppa che si muoveva in modo sparpagliato, senza direzione, sopra il lavandino, sopra i fornelli; alcune avevano raggiunto il frigo e formavano arabeschi sullo sportello, senza meta; erano una miriade di formiche smarrite nel deserto, che andavano a zonzo come impazzite o drogate. Io le osservavo incuriosito, un po’ incantato, come quando si guardano le onde del mare e non ci si stanca mai. Chissà con che speranza erano arrivate fin lassù, al quarto piano. Anche se avevo poco spirito scientifico, mi piaceva immaginare come poteva essere fatta una società di formiche. Avevano di sicuro delle caste ben definite all’interno del formicaio e a una appartenevano le esploratrici. Ma quelle nella nostra cucina non sembravano capeggiate da nessuna in particolare, né che obbedissero a un comando. Addirittura sbattevano una contro l’altra, come se avessero perso la loro guida. Quando ho pensato che era arrivato il momento di intervenire, ho chiamato mio padre e gli ho detto: “Guarda, babbo, ci sono le formiche in cucina”. Lui mi ha raggiunto, non subito, le ha guardate per un po’, poi mi ha accarezzato la testa e se ne è andato sorridendo. Cosa avesse da sorridere è rimasto un mistero; forse non aveva capito, oppure gli sembrava naturale che ci fossero le formiche in casa. Io ho continuato a guardarle, se andava bene a lui andava bene anche a me (le formiche non mi davano nessun fastidio, peggio sarebbero stati gli scarafaggi, o i topi). Poi però è tornata mia madre, l’ho salutata e sono andato in camera mia, sapevo che a lei non piacevano le formiche e che non accettava nemmeno che io stessi lì a guardarle senza far niente. Infatti, quando è entrata in cucina e ha visto tutto quel brulichio, ha iniziato a urlare in un modo così isterico che sembrava che la stessero strozzando. Allora mio padre l’ha raggiunta in cucina, col suo passo morbido, e le ha chiesto: “Che cosa sta succedendo Enrichetta?”. Non so se è stato l’uso del gerundio o il fatto che mio padre non fosse arrivato di corsa al primo strillo. Ma mia madre, invece di prendersela con le formiche, ha cominciato a dire che non aveva mai conosciuto, e che di sicuro non poteva esistere sulla faccia della terra, un uomo più imbecille di lui; che non riusciva a spiegarsi come avesse potuto sposare un imbecille del genere ( ci teneva a sottolineare il rimbecillimento di mio padre e cercava, anche con dei giri di frasi assai strani, di declinare questa parola in modi diversi). Mio padre non diceva niente, incassava gli insulti e basta. Poi si è avvicinato al lavello e, senza curarsi degli insulti che continuava a rivolgergli mia madre ha detto: “Oh, quante formiche”.


Adrian Bravi, "L'albero e la vacca", Feltrinelli (Nottetempo)





Un viaggio per mare limpido, brillante, colorato, intenso e gioioso come un bicchiere di Brunello di Montalcino

Oltre le Colonne d'Ercole
di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini
BookSprint Edizioni, 2014




L’estate, si sa, è tempo di vacanze e di viaggi. Un libro interessante, divertente e coinvolgente per chi non può permettersi un vero viaggio, ma vuole imbattersi nelle briose sensazioni della crociera è Oltre le colonne d’Ercole di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini, già autori del fortunato diario d’avventure per mare Da costa a costa (clicca qui per la recensione) I protagonisti, nonché autori del libro, sono sempre loro due, L e D (Lorenzo e Dario), che un anno dopo il primo viaggio, ripartono, come due prodi Ulisse, per una nuova e allegra crociera, ricca di sorprese, spunti di riflessione e colpi di scena inaspettati. 


La prima tappa della loro e della nostra avventura si svolgea Barcellona, città della Catalogna con delle prospettive artistiche strepitose; si va dal medievale Barrio Gotico in cui sorge la cattedrale, capolavoro del gotico catalano, a eleganti palazzi neoclassici, fino ad arrivare ai quartieri colorati in cui si alternano case liberty, neogotiche e floreali. Barcellona è anche la citta in cui visse e operò Antoni Gaudì, immaginifico architetto capace di creare splendide e avveniristiche opere: Casa Battlò, con le sue finestre dalle forme sinuose e rotondeggianti (vedi foto facciata a destra); Casa Milà,detta anche La Pedrera (letteralmente cava di pietra) per la sua facciata esterna rivestita di pietra grezza come una parete di roccia modellata dalle forze della natura; il fantasmagorico e onirico Parco Guell, con la sua vegetazione incantata e i suoi portici costruiti con pietre informi ricavate dal terreno circostante; e la Sagrada Familia, con le sue torri affusolate che assomigliano a pinnacoli di castelli di sabbia innalzati da mani gocciolanti di bambini.


Solitamente la nave, durante il viaggio per mare, all'ora dell’aperitivo si trasforma in un vero e proprio circolo culturale con dibattiti di ogni tipo a cui partecipano svariati personaggi, e tra questi i nostri due eroi viaggianti, L e D. Nel corso della crociera gli ospiti della nave si intrattengono, infatti, in argomenti e questioni misteriose che possono avere per oggetto l’Oceano Atlantico e l’isola di Atlantide, l’avventurosa vita di Thor Heyerdal, le Colonne d’Ercole, i costruttori di Nuraghi e il cavallo di Troia. 

Dopo qualche interessante discorso e dissertazione come quella, gustosissima ed esilarante, riguardante le avventure di L al Cinema di Venezia,  la tappa successiva della crociera ci porta a Tenerife, detta anche Isla del Infierno a causa delle temibili eruzioni del suo vulcano, El Teide, e famosa per la sua enorme montagna conica e per le piramidi di Guimar (vedi foto), a gradoni e di forma rettangolare. Si prosegue poi verso Malaga, città mediterranea al centro della Costa del Sol , caratterizzata da  Gibralfaro, una collina a ridosso del mare, dall'Alcazaba, antica dimora araba, dalla monumentale Cattedrale de la Encarnacion e da un museo dedicato al grande pittore Pablo Picasso, che qui abitò fino all'età di dieci anni.

Si arriva infine a Roma, il più grande museo a cielo aperto del mondo ma anche un museo sotterraneo ancora pulsante; infatti molte case odierne poggiano su antiche costruzioni  e vi è chi, scavando, ha scoperto che il suo portone d’ingresso al piano terra si trova al terzo piano di un’antica costruzione romana.

Oltre le Colonne d'Ercole si conclude con uno dei due protagonisti che sorseggia un bicchiere di Brunello di Montalcino, un vino limpido, brillante, colorato, intenso e gioioso. Proprio come questo libro.


Brasile 1950 – Brasile 2014: La maledizione del Mondiale in casa

Il Brasile dei Mondiali del 1950 era una nazione umile in cui il calcio, impastato di umanità, si praticava con poche risorse economiche. C’erano i palloni di cuoio con le cuciture e le maglie delle squadre senza scritte. C’era il calcio bailado, fatto con stracci e fantasia. Il Brasile era un paese povero ma anche felice, in cui da mattina a sera per le strade si vedevano frotte di bambini giocare allegri e accontentarsi del poco che avevano. C’è un brano di un bellissimo romanzo di Fabio Stassi, È finito il nostro carnevale (Minimum fax, 2007), che descrive perfettamente l’atmosfera magica che si respirava in quel Brasile del 1950:


I bambini giocavano a pallone contro i muri delle case, per strada, sulle scalinate. Lì quasi nessuno aveva le scarpe. Il calcio era come l’amore, non costava nulla. Un pomeriggio mentre guardavo palleggiare dei ragazzini pieni d’estro su un campo di terriccio, venne giù il temporale più violento che mi avesse mai bagnato. Trovai riparo sotto la tettoia di un capannone. La pioggia si era fatta tempesta, e la tempesta diluvio. Un fiume di fango scorreva davanti ai miei piedi e vedevo baracche di lamiera verniciata scivolare giù dalle colline come biglie di vetro. Eppure, in tutto quel cataclisma, i ragazzini non avevano smesso di giocare. Sfidavano i fulmini con irriverenza. Gareggiavano a chi riuscisse a mantenere la palla più a lungo per aria. Si esibivano in controlli acrobatici, dribblando il vento e l’acqua. Se la loro passione era più forte di tutte le piogge della terra, i brasiliani quell'anno avrebbero di sicuro conquistato la Coppa del Mondo”.

Il Brasile è uno di quei posti in cui il calcio è ragione di vita, in cui un trionfo in Coppa del Mondo basta per far dimenticare povertà e disgrazie. Per il popolo brasiliano quel Mondiale giocato in casa era una questione di vita o di morte. La partita decisiva si giocò il 16 luglio 1950 al Maracanã di fronte a 199.854 spettatori, record di ogni tempo. Il Brasile, per vincere la Coppa, poteva anche pareggiare (allora le regole erano diverse). Fin lì aveva dominato tutte le partite e tutti i tifosi brasiliani erano sicuri che il Brasile avrebbe stravinto anche l’ultima gara. Fu Friaca a portare in vantaggio i brasiliani al 47’. Ma Il grande Juan Alberto Pepe Schiaffino, detto il Dio del pallone, pareggiò i conti per l'Uruguay al 66’. A quel punto il Brasile con il pareggio sarebbe stato ugualmente Campione del Mondo. Ma non si accontentò e si spinse in avanti, esponendosi al contropiede dell’Uruguay. Il minuto della partita che paralizzò tutti i tifosi brasiliani fu il 79’: la grande ala uruguagia Alcides Edgardo Ghiggia si involò sulla destra saltando il suo diretto avversario. Il forte portiere brasiliano Moacir Barbosa Nascimento si aspettava il cross e decise di fare un piccolo passo in avanti. Ma Ghiggia, vedendo il portiere fuori posizione, invece di crossare, tirò rasoterra verso il palo lasciato scoperto. Non ci fu niente da fare, l’Uruguay si portò in vantaggio e mantenne il risultato fino alla fine, vincendo a sorpresa e contro i favori del pronostico il titolo mondiale. 
Ecco come viene descritto questo indimenticabile momento in  È finito il nostro carnevale di Stassi:

A undici minuti dalla fine, Schiaffino finta elegantemente sulla tre quarti e passa la palla a Ghiggia. Ghiggia riceve. Tiro. Goal. Uruguay due. Brasile uno. Moacir Barbosa, il primo portiere nero del Brasile, divenne bianco per il pallore. Nessuno gli avrebbe più perdonato di averla soltanto sfiorato, quella palla. Al fischio finale dell’arbitro, il Maracanã si accasciò come un pappagallino colpito a morte a cui avevano strappato le ali, piuma per piuma, e tagliato la lingua. Come se fosse precipitato da un’altezza vertiginosa sino al centro della terra. Per paradosso, la squadra che lo aveva impallinato si faceva chiamare Celeste. Lo definirono il silenzio più irripetibile della storia del calcio. Chi lo ha ascoltato può confermarlo. Un silenzio di duecentomila persone spacca i timpani e chiude la gola. Molti persero la voce per sempre. Il cronista che commentava la partita per radio abbandonò il suo mestiere. In tutta la nazione, i poveri e gli idealisti presero a suicidarsi”





Il portiere Barbosa, prima di morire a settantanove anni, dopo aver trascorso il resto della sua esistenza nell'indifferenza generale, dirà: “C’è chi dopo trent'anni sconta una condanna per omicidio, la mia invece non è finita neanche dopo cinquanta
In Brasile quel giorno piansero tutti. Fu più di una partita di calcio, fu una tragedia che uccise diverse persone. Alcune morirono di crepacuore, altre si suicidarono.
Il capitano dell’Uruguay Obdulio Varela, detto El Negro Jefe, rimuginò a lungo sul fardello morale della vittoria. Queste sono le parole che il grande scrittore Osvaldo Soriano gli attribuisce in uno splendido racconto-intervista pubblicato il 16 luglio del 1972 nel supplemento culturale del giornale La Opinión: “Loro per quella sera avevano preparato il carnevale più grosso del mondo e se l’erano rovinato. Gliel’avevamo rovinato noi. Mi sentivo male per questo. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto per un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza?”

lunedì 7 aprile 2014

Il bimbo del gelato



Questo personaggio, apparentemente innocuo, è uno dei più temuti dai baristi. Alto un metro e venti, con gli occhiali e la faccia da scimpanzé, è tuttavia dotato di un'eccezionale vitalità. Appare nel bar con lo sguardo perso: si avvicina al bancone con cento lire in mano e si aggrappa disperatamente al bordo. Il barista non lo vede quasi mai e continua a servire altri clienti. Se il bambino è molto timido, aspetta fino all'ora di chiusura, e talvolta il barista lo trova, addormentato, con le cento lire in mano, solo quando va a spazzare per terra. Se è normalmente timido, comincia a battere le cento lire sul banco con ossessionante regolarità. Se il barista non lo nota ancora comincia ad emettere versi come ehu, oah, oh. Alla fine s'incazza e se ne va senza prendere il gelato, proferendo terribili minacce. Spesso scrive frasi anatomiche sul freezer. Se il bambino è un bambino furbo, va subito al freezer dei gelati, lo apre e ci entra con la testa, le spalle e metà del corpo. Se il barista non se ne accorge in tempo, il bambino per prima cosa gli mangia tutto il ghiaccio. Poi scarta tutti i gelati per trovare il suo. Allora il barista gli piomba addosso e molto stolidamente gli chiede cosa vuole. A questo punto il bambino gli chiederà un gelato con un nome assurdo, come Bananotto, Antartidino, Cremarancio, Baden- Baden, di cui il barista ignora l'esistenza. Il barista controlla tutte le scorte di gelato con la testa nel freezer, e ogni tanto emerge con gelati mostruosi pieni di bugni, strati e colori a forma di pecora e di autoambulanza. Il bambino li osserva serio uno per uno e ogni volta dice «Non è lui». Terminato l'esame, il barista ha un febbrone da cavallo perché andare su e giù per il freezer gli ha provocato una broncopolmonite fulminante. Il barista si scalpella il ghiaccio dai capelli e guarda con odio il bambino, che fa «Allora voglio un cono». Il bambino si informa sui ventisette sapori in mostra, e ne sceglie venticinque. Il barista, ormai in balìa dell'avversario, si lascia guidare docilmente e compila gelati alti dal mezzo metro in su. Quando il gelato è finito, il bambino dice «Non ci ha messo il torroncino al rhum», il barista dice «Sì», il bimbo «No», e bisogna smontare il gelato fino alle fondamenta, accorgersi che aveva ragione il bambino e rifare tutto. A questo punto il bambino esce con settemila lire di gelato mettendo nelle mani del barista cento lire collose e sudaticce, ai limiti del falso. Appena fuori dal bar, il bambino addenta il gelato, che gli cade per terra con il tonfo di un suicida dal terzo piano. Il bambino piange come un disperato. Il barista, anche lui piange. Poi gli rifà il gelato. Il bambino esce, e mangia il gelato. Oppure il bambino esce, e fa ricadere il gelato. E così via.


Stefano Benni, Bar Sport



lunedì 17 marzo 2014

Un tipo a posto di Miriam Toews: Una sognante leggerezza

                                         


Italo Calvino afferma nelle sue Lezioni Americane che la leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto e non avere macigni sul cuore. Un tipo a posto della scrittrice canadese Miriam Toews, con ottima traduzione di Daniele Benati e Paola Lasagni, è un inno alla gioia, un libro comico e malinconico, dolce e sognante che  rappresenta alla perfezione la leggerezza calviniana.
La storia di Un tipo a posto è ambientata ad Algren, che con i suoi millecinquecento abitanti è la città più piccola del Canada. Essere la più piccola città costituisce un diritto alla celebrità e dà come premio la visita del primo ministro il giorno della festa nazionale. Ma Algren, per continuare ad avere lo status di città più piccola del Canada, deve mantenere costantemente i suoi millecinquecento abitanti, non uno di più né uno di meno. 
Il sindaco di Algren, un tipo bizzarro e stralunato, fa di tutto per conservare questo primato. E, per realizzare quello che sembra essere l’unico scopo e l’unica missione delle sue giornate, cerca in ogni modo di controllare e far quadrare il bilancio nascite-morti. Ma, tra gente che parte e gente che arriva, parti trigemini e morti improvvise, il compito del sindaco si rivelerà assai arduo e pieno di continui imprevisti.

martedì 11 marzo 2014

Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi di Carlo Sperduti : Un delirante gioco di parole

Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi
di Carlo Sperduti
Gorilla Sapiens Edizioni, 2013



Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi di Carlo Sperduti è un libro strampalato, surreale e delirante fin dal titolo. E si tratta di un delirio costante che emerge già dalla prefazione, firmata da un certo Gero Mannella, la cui breve nota biografica riporta le seguenti informazioni: “Scrive cazzate sin dalla più tenera età, si scaccola ai funerali con la mano non visibile al morto e usa pisciare dando le spalle alla rotazione terrestre”. 

Il giovane Sperduti erge a protagoniste indiscusse dei suoi racconti le parole, che innescano un confusionario e vaneggiante gioco fonico, sfociante quasi sempre nel non sense. I funambolici giochi di parole dell’autore sono in qualche modo affini alle sperimentazioni linguistiche dell’OpLePo, l’Opificio di Letteratura Potenziale, e in particolare ai divertissement poetici di Paolo Albani e all’originalissimo libretto I sette cuori di Ermanno Cavazzoni.

Nei racconti di Sperduti, caratterizzati dalla leggerezza, dal fine umorismo e dal sottile gusto per il paradosso, tutto è possibile. Si possono trovare streghe dislessiche. Un fusillo, precipitato per terra dopo una forchettata maldestra, può dar vita a un giallo misterioso che si risolverà solo dopo molti anni. Uomini innamorati, appena lasciati da una donna bionda di nome Chiara, non possono ordinare al bar una birra chiara, e nemmeno una birra bionda, perché il solo pronunciare quelle due parole andrebbe ad acuire la loro sofferenza. Si può, infine, avere a che fare con strane ragazze, affette dalla sindrome delle canzonette, che presentano il tic di pronunciare in ogni momento delle loro giornate la stessa snervante melodia Turuttuttù nairananài. 

Il lettore, di fronte a certi passaggi assurdi e quasi incomprensibili presenti nel testo di Sperduti, viene totalmente sviato e non sa se è meglio ridere o piangere, continuare a leggere o chiudere definitivamente il libro. Dopo qualche tentennamento, decide però di leggerlo tutto, e alla fine rimane in uno stato di trance, completamente istupidito, ma con uno strano sorriso sulle labbra che non si sa spiegare. E non può far altro che constatare che i racconti di Sperduti, pur nella loro anomalia e assurdità, sono davvero divertenti e originali.



lunedì 13 gennaio 2014

Girardengo, il Campionissimo di Paolo Bottiroli: un eroe sportivo d'altri tempi



Girardengo, il Campionissimo
di Paolo Bottiroli

Italica Edizioni (L’Ammiraglia), 2013


Paolo Bottiroli, originario di Novi Ligure, città famosa per il cioccolato e per aver dato i natali ai due campioni Costante Girardengo e Fausto Coppi, con una scrittura semplice e senza fronzoli retorici tratteggia in modo efficace e felice la mitica figura e la gloriosa carriera del primo Campionissimo del ciclismo. Costante Girardengo è il protagonista indiscusso non solo del libro di Bottiroli, ma anche dello sport a due ruote di inizio Novecento. 

Ai tempi di Girardengo il ciclismo era uno sport eroico e affascinante: i corridori erano dei veri e propri avventurieri che sfidavano il buio, le forature e il fango senza l’aiuto delle ammiraglie, correndo su biciclette molto pesanti che non avevano niente a che fare con quelle leggerissime di adesso. Il ciclismo di cent’anni fa era scandito da ritmi massacranti, e fatto di tappe lunghe fino a  400 km, con partenza a notte fonda e arrivo la sera successiva; era uno sport sicuramente più “pulito”, se rapportato  a quello odierno, in cui non  si faceva ricorso a sostanze dopanti, ma al massimo ad acqua di fonte e a uova fresche a volontà. Il ciclismo,allora, era lo sport più popolare e amato in Italia; e il Campionissimo, appellativo dato a Girardengo dal noto giornalista e direttore della Gazzetta dello Sport Ercole Colombo, fu il primo a infiammare le folle dei tifosi: nessun altro beniamino sportivo all'epoca era capace di radunare un pubblico paragonabile al suo.

Costante Girardengo (a destra una delle belle illustrazioni, ad opera di Alessandro Battara, che corredano il libro) è considerato uno dei più grandi ciclisti di ogni tempo; è un personaggio circondato da un’aura di leggenda, degno di essere accostato agli eroi della mitologia: professionista dal 1912 fino al 1936- anno in cui si ritira dalle corse a 43 anni- nella sua lunga e trionfale carriera riesce a vincere 2 Giri d’Italia, 6 Milano-Sanremo, 3 Giri di Lombardia e 9 campionati italiani su strada consecutivi. Arriva a ottenere 128 vittorie su strada e 967 su pista, in totale 1095 trionfi. Il “Gira” era capace di stravincere, avventurandosi in fughe solitarie di 200 km, con gli avversari che arrivavano mezzora dopo di lui, ma anche di vincere soffrendo all’ultimo colpo di pedale, dopo volate tiratissime. Fu l’eroe e l’idolo della generazione cresciuta dopo la Prima Guerra Mondiale. Il grande giornalista Indro Montanelli fece di Girardengo il mito della sua adolescenza, al pari di Testa di Pietra e del Corsaro Nero. Con l’unica differenza che questi ultimi due erano personaggi inventati e fantasiosi, Girardengo invece era una persona vera, in carne e ossa. Il più giovane conterraneo Fausto Coppi lo vide come un modello da imitare, si appassionò a questo sport grazie alle sue imprese, e successivamente ne ereditò la gloria e il soprannome di Campionissimo. 

In Girardengo, il Campionissimo Paolo Bottiroli ripercorre tutte le vittorie del campione, fa rivivere i dualismi e le battaglie con gli italiani Belloni, Bottecchia e Binda, con i francesi Berenger, Hillarion e i tre fratelli Pelissier, con l’elvetico Suter e il belga Sellier. Non tralascia poi di menzionare l’epica sfida Uomo contro Bicicletta tra Dorando Pietri, uno degli uomini più veloci del mondo, e Girardengo: il grande maratoneta nel 1907 aveva messo in palio due lire per il ciclista che fosse riuscito a compiere due giri della piazza del Mercato di Novi Ligure, prima che lui ne terminasse uno a piedi. Tra lo stupore generale dei presenti un ragazzino sconosciuto, esile e di bassa statura, accettò la sfida e sbalordì tutti, riuscendo ad avere la meglio sul favoritissimo Dorando Pietri. Quel ragazzino era Costante Girardengo e, dopo quell’impresa epica, divenne l’idolo di Novi Ligure. Nel libro si fa riferimento anche alla presunta amicizia tra Girardengo e il leggendario bandito anarchico Sante Pollastro, dovuta alla comune passione per la bicicletta, mezzo utilizzato dal “Gira” per vincere le gare, dal fuorilegge per sfuggire alla polizia dopo una rapina.

L’ultima parte della biografia di Bottiroli è dedicata alla vita di Girardengo dopo aver abbandonato le gare, e a quello che rimane di lui al giorno d’oggi per mantenere vivo il suo ricordo: qualche statua e qualche targa sparsa a Novi Ligure e nei paesi limitrofi, e soprattutto il Museo dei Campionissimi di Novi Ligure, dedicato appunto a Girardengo (oltre che a Coppi), dove si possono trovare, tra le altre cose, le foto che ripercorrono i momenti salienti della sua vita e della sua carriera, una sua bici da strada e la maglietta del Campionato Italiano che Girardengo vinse nel 1921.

Per tentare di aggiungere qualcosa all'interessante e documentato lavoro di Paolo Bottiroli, si può citare una considerazione espressa dallo stesso Girardengo, questa: “L’andare in bicicletta costituisce per me un piacere più che una fatica, un istinto più che un’ abitudine. Direi quasi che l’andare a piedi non sembra per me l’andatura normale. Concepisco la bicicletta come una parte integrale di me stesso”. Costante Girardengo e la bicicletta sono una cosa sola.




sabato 4 gennaio 2014

Tutti primi sul traguardo del mio cuore di Fabio Genovesi - Una favola sportiva per cuori semplici



Tutti primi sul traguardo del mio cuore
di Fabio Genovesi
Mondadori, 2013


Lo Sport riserva sempre grandi imprese e intense emozioni, rappresentando un meraviglioso serbatoio a cui la letteratura può attingere per prelevare storie e racconti. Gli editori italiani, per molti anni, hanno sostenuto che i quotidiani e le riviste sportive erano sufficienti per raccontare lo sport. Negli ultimi tempi, invece, si è assistito a un vero e proprio mutamento di rotta, con  gli editori che si sono finalmente aperti allo sport, pubblicando sempre più libri sportivi in forma di saggi, biografie, romanzi e racconti; emblematico, tra tutti, il caso editoriale dell’autobiografia Open di Agassi, uscita in Italia presso Einaudi nel 2011. Nell’ultimo anno si è assistito a un’ulteriore crescita della letteratura sportiva, tanto che i libri con lo sport dentro sono aumentati del cento per cento. E, nella maggior parte dei casi, si tratta di opere di qualità. Come Tutti primi sul traguardo del mio cuore di Fabio Genovesi, già autore di Versilia Rock City ed Esche vive. 




Quella di Genovesi è una favola per cuori semplici sulle emozioni e le sensazioni che solo lo sport sa dare, in questo caso il ciclismo. Il libro del giovane scrittore di origini toscane è adatto a tutti, anche a chi di ciclismo non capisce nulla. La voce narrante di Tutti primi sul traguardo del mio cuore è Genovesi stesso, che racconta la prima volta in cui, ancora bambino, vide passare il Giro d’Italia in compagnia del mitico zio Aldo. In quell’occasione si alzò un vento magico: era il vento del gruppo, che arrivava enorme e colorato, innescando un’onda travolgente di emozioni. Da quel momento il bambino, ammaliato dall’incantamento prodotto da quel fulmineo passaggio di biciclette e magliette variopinte, comincia ad avere un solo chiodo fisso in testa: al Giro d’Italia, un giorno o l’altro, ci andrà da protagonista. Ma, dopo essersi accorto di non essere tagliato per correre con una bici, a malincuore decide di accantonare il suo sogno. 

Un giorno, però, quando il bambino Fabio Genovesi è diventato grande e ha ormai quarant’anni, arriva la chiamata che non si aspetta, e che risveglia il sogno dal dimenticatoio in cui è stato riposto: il Corriere della Sera gli chiede di partire dietro alla corsa rosa, e di fare una cronaca, tappa per tappa, del Giro d’Italia. Così cominciano le tragicomiche avventure del novello cronista sportivo, in un coinvolgente tour de force, pieno di allegri e appassionanti colpi di scena, che parte da Napoli, va giù in Calabria e in Puglia, e poi risale su verso la Toscana, e da lì sulle Dolomiti, in Slovenia e in Francia, per arrivare, infine, in una lunga giostra sulle alpi, a Brescia.

Fabio Genovesi si definisce un cialtrone che scrive; è invece un grande affabulatore che narra le sue storie con una naturalezza e una semplicità disarmanti. E, attraverso il sapiente e coinvolgente ritmo narrativo impresso da Genovesi, il fortunato lettore può “vedere” paesaggi favolosi e luoghi magici e incantevoli di una bellezza indicibile e soverchiante, lungo i quali si addossa la folla festante e variopinta dei tifosi; può assistere a fughe solitarie avventurose e a volate di gruppo all’ultimo respiro, con i ciclisti accomunati tutti dal sogno di vincere una tappa al giro, o tenere almeno per un giorno la mitica maglia rosa, o più semplicemente arrivare in fondo alla corsa rosa, non importa in quale posizione; e può sentirsi partecipe di esperienze e situazioni esilaranti, che provocano un riso contagioso, come l’incontro con il poeta calabro di paese Minno Minnini, o la paradossalità dovuta al fatto di seguire il Giro d’Italia e di perdersi per le strade della Slovenia. 

Finito il libro, ti viene da ripensare un po’ a quei ciclisti che, sotto un sole cocente che arrostisce la pelle,  o sotto una neve continua che ghiaccia il naso, la bocca e le mani, soffrono per arrivare alla fine della tappa, ma quando ci riescono sono felici. E per un attimo ti sembra di riconoscere, dietro a quelle sofferenze e a quelle felicità sportive, i tuoi giorni complicati, i tuoi pensieri, i tuoi sogni, i piccoli pezzi della tua vita.