domenica 21 settembre 2014

Mi ricordo di Joe Brainard: Come inventare una macchina del ricordo

Mi ricordo
di Joe Brainard
Edizioni Lindau



Joe Brainard è stato un pittore, poeta e scrittore americano che probabilmente non avrebbe lasciato grandi tracce se un bel giorno dell’estate del 1969, quando aveva solo ventisette anni, non avesse inventato quella che Siri Hustvedt definisce una vera e propria "macchina del ricordo". Il meccanismo di questa macchina è molto semplice e ce lo spiega con parole efficaci Paul Auster: "Scrivete le parole -Mi ricordo-, fermatevi per un momento o due, date modo alla vostra mente di aprirsi, e inevitabilmente ricorderete, con una chiarezza e una specificità che vi stupirà". Chiunque  può fare questo esercizio di memoria e di scrittura, riuscendo a rievocare momenti particolari di esperienze ormai lontane nel tempo. Ma il merito di Joe Brainard consiste nel fatto che, oltre ad aver scoperto questa potente macchina della rievocazione, egli la sa usare in modo impeccabile e incantevole. Quelli di Mi ricordo, infatti, sono dei meravigliosi e sorprendenti pezzettini di prosa che brillano per originalità e fantasia, e dimostrano quanto bravo sia l'autore a raccontare dei frammenti di vita vissuta con uno stile semplice ma coinvolgente che fa sì che il lettore resti, quasi ipnotizzato e attaccato alle pagine del libro.
I quasi millecinquecento ricordi del libro trattano degli argomenti più svariati, evidenziando gli innumerevoli interessi di Brainard, uomo curioso di tutto ciò che lo circonda.Tra le pagine di questo piccolo capolavoro si trovano ricordi legati a esperienze di ogni genere: Mi ricordo è infatti un contenitore e un collage di memorie in cui si può trovare qualsiasi cosa.

Molto spazio ha, com'è naturale nei ricordi, l’età dell’infanzia, epoca "colorata" e spensierata, piena di giochi,scherzi e passatempi di ogni sorta:
Mi ricordo le battaglie con i cuscini /  Mi ricordo Bel vestito!(si correva qua e là tirando su il vestito alle bambine e urlando Bel vestito! Mi ricordo quando i bambini inciampano, patapum! / Mi ricordo nascondino, e che sbirciavo quando facevo la conta/ Mi ricordo le pietre che raccogli qua e là e quando torni non sai cosa fartene.

Ecco poi descritti i pensieri buffi, ingenui e tipici di un bambino:
Mi ricordo quando pensavo che se uno faceva qualcosa i poliziotti lo mettevano in prigione / Mi ricordo che dicevano che se un nero si sposava con una bianca e facevano un bambino poteva uscire a pois bianchi e neri.

Lo scrittore americano racconta poi lo strano rapporto che aveva da piccolo con alcuni giocattoli e la sua curiosità di conoscere i loro meccanismi nascosti:
Mi ricordo che una volta rimasi a dir poco deluso scoprendo che nella pancia di un vecchio orsacchiotto c’era solo bambagia grigia e qualche filo rosso.

Non mancano le avventure e le marachellle in certi ambienti caratterizzati da regole ferree, come la scuola o la chiesa, che il Brainard bambino non riesce però a rispettare:
Mi ricordo il momento della comunione in cui era più difficile non ridere. Era quando dovevamo tirare fuori la lingua e il reverendo ci metteva sopra l’ostia. Le ostie avevano un buon sapore. Una volta ne trovai un barattolo intero in un armadietto nella sala del coro e ne mangiai un sacco. A mangiarne un sacco non sono buone come quando ne mangi una sola.

L'autore descrive anche i tragicomici esperimenti fatti da bambino sugli animali: 
Mi ricordo un caldissimo giorno d’estate, misi dei cubetti di ghiaccio nell'acquario e tutti i pesci morirono/ Mi ricordo che acchiappavo le lucciole e le mettevo in un barattolo con dei buchi sul tappo per poi liberarle il giorno dopo.

Il giusto risalto hanno pure i ricordi legati ai genitori:
Mi ricordo mia madre che raccontava le cose divertenti che avevo fatto da piccolo e che ogni volta diventavano più divertenti / Mi ricordo che da piccolo dicevo "urca!" ogni volta che vedevo una donna dai capelli rossi perché a mio padre piacevano le rosse e ci facevamo sempre una risata.

Brainard riferisce poi i propri gusti riguardo al cibo, rivelando i suoi giocosi modi di mangiare e i suoi estemporanei tentativi di accostare alimenti per produrre nuove ricette poi rivelatesi disgustose: 
Mi ricordo di aver scavato tunnel e città mentre mangiavo l’anguria / Mi ricordo che pensavo di aver fatto la scoperta del secolo quando mi venne in mente di mangiare i cereali con il succo d’arancia invece del latte, ma poi li assaggiai e facevano schifo/ Mi ricordo che il formaggio in polvere da mettere sugli spaghetti puzzava di piedi in modo piuttosto sospetto.

Meravigliose sono le osservazioni sull'incantamento prodotto dalla visione dei fenomeni naturali, e comici appaiono i primi esperimenti relativi alla piantagione di alcuni semi:
Mi ricordo arcobaleni nelle pozze oleose dell’asfalto dopo la pioggia/ Mi ricordo che se chiudi gli occhi rivolti al sole vedi tutto rosso/ Mi ricordo che una volta piantai di nascosto dei semi di anguria in cortile ma non successe un bel niente.

C’è infine spazio per i dubbi legati ai grandi misteri della vita: 
Mi ricordo che non capivo come i bambini potessero uscire da un buco così piccolo ( E non l’ho ancora capito). 

Diversi scrittori hanno tentato di imitare la perfetta e armonica struttura di I remember di Joe Brainard, e alcuni lo hanno fatto anche con buoni risultati, come lo scrittore francese Georges Perec in Je me souviens; ma ilMi ricordo di Joe Brainard resta tuttora, per i motivi sopra esposti, un’opera insuperata e insuperabile. 



giovedì 18 settembre 2014

Papere



Nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizioni assai leggiere, ma ricco e bene inviato e esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una donna moglie, la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. 
Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’età di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse; e veggendosi di quella compagnia, la quale egli più amava, rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo ma di darsi, al servigio di Dio e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni cosa per Dio, senza indugio se ne andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta se mise col suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da co­sì fatto servigio non traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de' santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa di sé dimostrandogli.
Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze: e quivi secondo le sue oportunità dagli amici di Dio sovenuto, alla sua cella tornava.
Ora avvenne che, essendo già il garzone d’età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov’egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: “Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò chè, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovine e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe' nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?”
Il   valente uomo, pensando che già questo suo figliolo era grande e era si abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: “Costui dice bene”; per che, avendovi ad andare, seco il menò.
Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali, tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza vedute no’ n’ avea, si cominciò forte a maravigliare e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva; e egli, avendola udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E così domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno: le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero.
A cui il padre disse: “Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch’elle san màla cosa”.
Disse allora il figliuolo: “O come si chiamano?”
Il   padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole desiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: “Elle si chiamano papere”.
Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non avea, non curatosi de' palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de' denari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: «Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere”.
“Oimè, figliuol mio,” disse il padre «taci: elle son mala cosa”.
A cui il giovane domandando disse: «O son così fatte le male cose?” “Sì” disse il padre.
E egli allora disse: “Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è, a me non è ancora paruta vedere alcuna cosa bella né così piacevole come queste sono. Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete più volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà sù di queste papere, e io le darò beccare”.
Disse il padre: “Io non voglia; tu non sai donde elle s’imbeccano!” e sentì incontamente più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi d’averlo menato a Firenze.

Giovanni Boccaccio, Il Decameron


Dario Fo, L'apologo delle papere