Mio
padre si accorgeva sempre in ritardo delle cose, e per questo particolare io
l’ho sempre ammirato. Una volta eravamo a casa, lui e io da soli, mia madre era
andata un paio di giorni dai nonni che abitavano lontano e stavano sempre male
anche quando stavano bene e non avevano niente, e all’improvviso sono arrivate
le formiche ( a casa abbiamo sempre dovuto combattere contro le formiche,
ancora oggi non riesco a capire da dove arrivassero, visto che abitavamo al
quarto piano). Prima ne era comparso un gruppetto, forse dieci o venti, non si
riesce mai a contarle, le formiche. Dopo cinque minuti ne era arrivata
un’intera truppa che si muoveva in modo sparpagliato, senza direzione, sopra il
lavandino, sopra i fornelli; alcune avevano raggiunto il frigo e formavano
arabeschi sullo sportello, senza meta; erano una miriade di formiche smarrite
nel deserto, che andavano a zonzo come impazzite o drogate. Io le osservavo
incuriosito, un po’ incantato, come quando si guardano le onde del mare e non
ci si stanca mai. Chissà con che speranza erano arrivate fin lassù, al quarto
piano. Anche se avevo poco spirito scientifico, mi piaceva immaginare come
poteva essere fatta una società di formiche. Avevano di sicuro delle caste ben
definite all’interno del formicaio e a una appartenevano le esploratrici. Ma
quelle nella nostra cucina non sembravano capeggiate da nessuna in particolare,
né che obbedissero a un comando. Addirittura sbattevano una contro l’altra,
come se avessero perso la loro guida. Quando ho pensato che era arrivato il
momento di intervenire, ho chiamato mio padre e gli ho detto: “Guarda, babbo,
ci sono le formiche in cucina”. Lui mi ha raggiunto, non subito, le ha guardate
per un po’, poi mi ha accarezzato la testa e se ne è andato sorridendo. Cosa
avesse da sorridere è rimasto un mistero; forse non aveva capito, oppure gli
sembrava naturale che ci fossero le formiche in casa. Io ho continuato a
guardarle, se andava bene a lui andava bene anche a me (le formiche non mi
davano nessun fastidio, peggio sarebbero stati gli scarafaggi, o i topi). Poi
però è tornata mia madre, l’ho salutata e sono andato in camera mia, sapevo che
a lei non piacevano le formiche e che non accettava nemmeno che io stessi lì a
guardarle senza far niente. Infatti, quando è entrata in cucina e ha visto
tutto quel brulichio, ha iniziato a urlare in un modo così isterico che
sembrava che la stessero strozzando. Allora mio padre l’ha raggiunta in cucina,
col suo passo morbido, e le ha chiesto: “Che cosa sta succedendo Enrichetta?”.
Non so se è stato l’uso del gerundio o il fatto che mio padre non fosse
arrivato di corsa al primo strillo. Ma mia madre, invece di prendersela con le
formiche, ha cominciato a dire che non aveva mai conosciuto, e che di sicuro
non poteva esistere sulla faccia della terra, un uomo più imbecille di lui; che
non riusciva a spiegarsi come avesse potuto sposare un imbecille del genere (
ci teneva a sottolineare il rimbecillimento di mio padre e cercava, anche con
dei giri di frasi assai strani, di declinare questa parola in modi diversi).
Mio padre non diceva niente, incassava gli insulti e basta. Poi si è avvicinato
al lavello e, senza curarsi degli insulti che continuava a rivolgergli mia
madre ha detto: “Oh, quante formiche”.
Adrian Bravi, "L'albero e la vacca", Feltrinelli (Nottetempo)
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