domenica 31 agosto 2014

Formiche




Mio padre si accorgeva sempre in ritardo delle cose, e per questo particolare io l’ho sempre ammirato. Una volta eravamo a casa, lui e io da soli, mia madre era andata un paio di giorni dai nonni che abitavano lontano e stavano sempre male anche quando stavano bene e non avevano niente, e all’improvviso sono arrivate le formiche ( a casa abbiamo sempre dovuto combattere contro le formiche, ancora oggi non riesco a capire da dove arrivassero, visto che abitavamo al quarto piano). Prima ne era comparso un gruppetto, forse dieci o venti, non si riesce mai a contarle, le formiche. Dopo cinque minuti ne era arrivata un’intera truppa che si muoveva in modo sparpagliato, senza direzione, sopra il lavandino, sopra i fornelli; alcune avevano raggiunto il frigo e formavano arabeschi sullo sportello, senza meta; erano una miriade di formiche smarrite nel deserto, che andavano a zonzo come impazzite o drogate. Io le osservavo incuriosito, un po’ incantato, come quando si guardano le onde del mare e non ci si stanca mai. Chissà con che speranza erano arrivate fin lassù, al quarto piano. Anche se avevo poco spirito scientifico, mi piaceva immaginare come poteva essere fatta una società di formiche. Avevano di sicuro delle caste ben definite all’interno del formicaio e a una appartenevano le esploratrici. Ma quelle nella nostra cucina non sembravano capeggiate da nessuna in particolare, né che obbedissero a un comando. Addirittura sbattevano una contro l’altra, come se avessero perso la loro guida. Quando ho pensato che era arrivato il momento di intervenire, ho chiamato mio padre e gli ho detto: “Guarda, babbo, ci sono le formiche in cucina”. Lui mi ha raggiunto, non subito, le ha guardate per un po’, poi mi ha accarezzato la testa e se ne è andato sorridendo. Cosa avesse da sorridere è rimasto un mistero; forse non aveva capito, oppure gli sembrava naturale che ci fossero le formiche in casa. Io ho continuato a guardarle, se andava bene a lui andava bene anche a me (le formiche non mi davano nessun fastidio, peggio sarebbero stati gli scarafaggi, o i topi). Poi però è tornata mia madre, l’ho salutata e sono andato in camera mia, sapevo che a lei non piacevano le formiche e che non accettava nemmeno che io stessi lì a guardarle senza far niente. Infatti, quando è entrata in cucina e ha visto tutto quel brulichio, ha iniziato a urlare in un modo così isterico che sembrava che la stessero strozzando. Allora mio padre l’ha raggiunta in cucina, col suo passo morbido, e le ha chiesto: “Che cosa sta succedendo Enrichetta?”. Non so se è stato l’uso del gerundio o il fatto che mio padre non fosse arrivato di corsa al primo strillo. Ma mia madre, invece di prendersela con le formiche, ha cominciato a dire che non aveva mai conosciuto, e che di sicuro non poteva esistere sulla faccia della terra, un uomo più imbecille di lui; che non riusciva a spiegarsi come avesse potuto sposare un imbecille del genere ( ci teneva a sottolineare il rimbecillimento di mio padre e cercava, anche con dei giri di frasi assai strani, di declinare questa parola in modi diversi). Mio padre non diceva niente, incassava gli insulti e basta. Poi si è avvicinato al lavello e, senza curarsi degli insulti che continuava a rivolgergli mia madre ha detto: “Oh, quante formiche”.


Adrian Bravi, "L'albero e la vacca", Feltrinelli (Nottetempo)





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